
L’uso del corpo come mezzo per comunicare, dove condensare le proprie forze, attraverso il quale la propria volontà possa esprimersi nel mondo. E così è il sesso
di Marco Pozzi
Nello scorso post ho parlato della produzione Netflix Olympo approfondendo alcuni legami fra sport e doping. Qualche altra riflessione può essere aggiunta prendendo spunto dalla serie. Portare all’eccesso il proprio corpo diventa urgenza interiore, non solo una faccenda di cronometro o punteggio; spingerlo al limite, qualunque sia, farlo “esistere” – muoversi, correre, spingere, saltare – nelle infinite e migliori possibilità, come strumento di cui un essere umano dispone per esprimersi nel mondo.
Ricorda, nella spinta a raggiungere prestazioni mai raggiunte, una famosa lettera di Arthur Rimbaud: “Il Poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca sé stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale fra tutti diviene il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, ‒ ed il Sapiente supremo! ‒ Perché egli arriva all’ignoto! Perché ha coltivato la sua anima già ricca, più di chiunque altro! Egli arriva all’ignoto, e quando, smarrito, finirà col perdere la comprensione delle proprie visioni, le avrebbe pur viste! Crepi pure nel suo balzare attraverso cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; e ricominceranno dagli orizzonti dove l’altro si è schiantato!”.
Sì perché c’è molto “linguaggio” nello “sport”: l’uso del corpo come mezzo per comunicare, come strumento dove condensare le proprie forze, attraverso il quale la propria volontà possa esprimersi nel mondo. È simile al ruolo per l’attore sulla scena, che esprime sé stesso attraverso un personaggio; così l’atleta in campo, in piscina, o in pista, o dovunque, usa movimenti per inscenare nel mondo una storia, che è la propria, quella che in anni e anni di allenamento ha portato l’atleta ad esser lì, in quel luogo e in quel momento, e, mediante regole condivise con altri, “giocare uno sport” nella maniera in cui solo lui sa fare; si mette in scena al pubblico la propria identità. Così l’attore che recita un copione, così l’atleta nella competizione: il corpo e la mente, l’intera energia vitale della persona lì si sprigiona nel mondo.
E così è il sesso che in Olympo abbonda, quel linguaggio reciproco della carne, che alla maniera di ciascuno – uno “stile” – trasuda prendere e donarsi, avvinghiarsi e spingere, sudare e piangere, ridere e svuotarsi; la vittoria e la sconfitta, così la conquista e il due-di-picche, il desiderio esploso nell’abbraccio, come in un contatto di atleti determinati alla vittoria, le botte e i lividi per prevalere, insieme alla grazia d’un movimento provato e riprovato in allenamento per superare un avversario. Ammirazione e possesso, piacere e sofferenza, pudore e follia, la fatica che porta allo sfinimento da cui non ci si vorrebbe più rialzare. Sport e sesso hanno i loro codici, un loro alfabeto, codificato e selvaggio, libero e regolamentato, fremente di godimenti e delusioni, di rudi contrasti e sublimi armonie.
Tutto ciò emerge nella serie Olympo, che non è comunque una serie indimenticabile, fin dalla sceneggiatura.
L’atleta con la protesi alla gamba sembra esser stato inserito lì per soddisfare un requisito inclusivo di produzione, più che per arricchire la storia (anche perché: come mai è l’unico che si vede? Non ci saranno altri atleti con disabilità a livello paraolimpico in Spagna con cui anche lui avrebbe potuto allenarsi?). Ulteriori dubbi di sceneggiatura: perché fare anestesia e trattamento a Zoe durante un incontro con tutta la stampa al piano di sopra? I conflitti fra i tre capi Olympo sono poco chiari, non motivati e abbastanza in sospeso. Oppure: perché Zoe, che fa eptathlon, corre sempre e non si allena mai nelle sue altre discipline, come salto in lungo o giavellotto? Tanto valeva farne una mezzofondista (e: perché nello stadio del CAR non ci sono le altre discipline dell’atletica, ma soltanto atleti/atlete che corrono?).
Sono alcuni esempi che tuttavia non cancellano il fascino della serie nel rappresentare il dietro-alle-quinte le grandi manifestazioni, il back-stage nella vita degli sportivi di altissimo livello. E senza accostare chi fa uso di doping a un Sapiente, anche Olympo ci è utile per riflettere di quanto complesso e ricco e contradittorio sia, anche nel sesso, lo sforzo totalizzante e ossessivo di atleti e atlete per costruire “nuovi orizzonti”.