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Il patto di difesa tra Arabia Saudita e Pakistan segna una svolta: ora il Medioriente vuole autonomia dagli Usa

È il segnale che il Medio Oriente non intende più affidare il proprio destino esclusivamente a Washington

Il 17 settembre, Arabia Saudita e Pakistan hanno firmato un patto di difesa che molti osservatori definiscono “storico”. Non si tratta solo di un accordo militare, ma di un segnale che potrebbe ridisegnare gli equilibri di sicurezza nella regione e oltre.

Ciò che sta accadendo tra Arabia Saudita e Pakistan non è un semplice accordo militare, è un passaggio di fase nella geopolitica regionale. Il nuovo patto di difesa, che vincola i due Paesi a considerare un attacco contro l’uno come un attacco contro l’altro, è un accordo che molti analisti, da Al Jazeera ad altre testate internazionali, hanno definito “storico”, addirittura un “watershed moment”, una svolta che rischia di ridisegnare gli equilibri di potere nel Medio Oriente e oltre. Io penso che questa definizione non sia un’esagerazione, perché siamo davanti a una svolta che va ben oltre la cooperazione episodica del passato.

L’elemento decisivo è la tempistica. L’attacco a Doha ha mostrato tutta la vulnerabilità del Golfo e, nello stesso momento, ha accentuato i dubbi sulla capacità degli Stati Uniti di garantire la sicurezza dei propri alleati. Ritengo che l’Arabia Saudita abbia reagito scegliendo un partner alternativo, ma soprattutto credibile, il Pakistan, potenza nucleare con un esercito che ha esperienza diretta sul campo.

Molti osservatori si domandano perché non l’India, con la quale Riyad intrattiene relazioni economiche intensissime. Io penso che la risposta stia proprio nella distinzione tra affari e sicurezza: per la crescita economica si può guardare a Nuova Delhi, ma quando la questione è la sopravvivenza dello Stato, l’affidabilità conta più della dimensione economica. E l’Arabia Saudita, secondo me, ha ritenuto Islamabad più solida in termini militari.

Un punto centrale, a mio avviso, riguarda la costruzione della percezione. La politica internazionale non vive solo di atti concreti, ma anche di ambiguità calcolate. Le formule utilizzate in questo patto, come “deterrenza congiunta”, sono volutamente elastiche. Io penso che si tratti di un linguaggio che crea margini di manovra: rassicura gli alleati, spaventa i rivali e lascia aperte possibilità future. È la stessa logica che altri Paesi, Israele in primis, adottano da decenni.

Non sorprende che siano arrivate subito critiche, soprattutto dagli Stati Uniti, con l’evocazione del rischio di proliferazione nucleare. Penso che sia un riflesso condizionato: ogni rafforzamento del Pakistan viene automaticamente associato al pericolo che l’arsenale atomico finisca fuori controllo. Ritengo che questa narrazione sia strumentale, soprattutto se pensiamo agli episodi poco chiari avvenuti in India con materiali nucleari dispersi o ai silenzi che circondano Israele.

C’è poi un altro elemento che secondo me merita molta attenzione: il mercato degli armamenti. Se l’Arabia Saudita cominciasse a spostare il suo baricentro dagli Stati Uniti verso Cina e Pakistan, l’impatto sarebbe enorme. Non solo in termini militari, ma anche economici. Ritengo che questo patto apra uno spazio inedito per la cooperazione tecnologica, dalla produzione di droni fino a sistemi di difesa avanzati, con effetti potenzialmente destabilizzanti per il monopolio americano nella regione.

Per il Pakistan questa è un’opportunità storica. Il Paese, da sempre stretto nella morsa dei prestiti occidentali, potrebbe sfruttare l’alleanza con Riyad per rafforzare la propria autonomia. Se Islamabad saprà trasformarsi da cliente a garante, la sua posizione internazionale ne uscirà rafforzata. Ma io penso che questa occasione porti con sé anche rischi significativi, maggiore esposizione alle pressioni esterne, nuove campagne di disinformazione, possibili azioni destabilizzanti.

In conclusione, ritengo che il patto saudita-pakistano rappresenti molto più di un accordo difensivo. È il segnale che il Medio Oriente non intende più affidare il proprio destino esclusivamente a Washington. È l’avvio di una fase in cui i Paesi della regione cercano di diventare attori autonomi, ridisegnando equilibri che per decenni abbiamo considerato immutabili. Qui la vera domanda che resta aperta è se questa alleanza sarà in grado di durare nel tempo, trasformandosi in un pilastro del nuovo ordine regionale, o se rimarrà solo un lampo destinato a spegnersi.