Società

La guerra oggi è il nostro ‘trauma vicario’: così le immagini ci cambiano anche psicologicamente

La continua esposizione alle informazioni più terribili ci rende soggetti a quello che viene chiamato trauma vicario, cioè il coinvolgimento empatico con le vittime dirette dei traumi

Assistiamo da troppo tempo all’espressione più bassa della natura umana e del suo incerto equilibrio psichico. I temi di guerra sono purtroppo molto presenti nella nostra vita oggi, per noi che abbiamo goduto di decenni di relativa pace e stabilità.

Siamo letteralmente investiti da notizie che arrivano da tutti i canali informativi, ufficiali e non ufficiali, spesso senza filtri. La continua esposizione alle informazioni più terribili ci rende soggetti a quello che viene chiamato trauma vicario, cioè il coinvolgimento empatico con le vittime dirette dei traumi. Coinvolgimento che porta allo sviluppo di sintomi post traumatici che possono manifestarsi indistintamente attraverso una grande sensibilità, o attraverso forme di anestesia emotiva e di cinismo.

È poi magari per questo che sentiamo e leggiamo le più marcate stupidità in certi articoli e in certi commenti sui fatti agghiaccianti che accadono.

E pensare che la guerra non è neanche un aspetto innato e istintivo dell’essere umano: non abbiamo artigli, né denti particolarmente aguzzi.

La guerra è anche un fenomeno relativamente recente. Gli antropologi stimano che risalga a non più di 10.000 anni fa e sia diventato più frequente da 6000 anni a questa parte. Ipotizzano che la tendenza a confliggere sia più il risultato dell’evoluzione e della socializzazione: il passaggio dal nomadismo al sedentarismo, ha evidentemente stimolato il bisogno di custodire e proteggere beni e risorse naturali limitate.

È allora il prezzo da pagare per la convivenza stretta e ravvicinata nelle comunità che insieme ai molti vantaggi, porta anche il rischio di perdere diritti, opportunità, risorse, identità. Dobbiamo anche rassegnarci all’idea che vivere nelle grandi comunità, con i rischi e le limitazioni che inevitabilmente comporta, favorisca un irrefrenabile bisogno di potere per garantirsi quelle stesse risorse ed evadere da quelle stesse limitazioni.

Come nella psicoterapia si approfondisce in caso di meccanismi disfunzionali resistenti al cambiamento, così nella guerra è lecito chiedersi se c’è, e quale è, un aspetto positivo,

William James, primo psicologo a indagare sulla guerra, nel 1910 ipotizzava che la guerra fosse così diffusa per i suoi effetti psicologici positivi, sia sull’individuo che sulla comunità. A livello sociale, la guerra trasmette un senso di unità di fronte a una minaccia comune. Lo sa bene evidentemente chi ricopre posizioni di potere.

Abbiamo sperimentato qualcosa di simile durante la pandemia: l’essere umano esprime la sua parte migliore nelle condizioni più critiche. La guerra unisce le persone contro un nemico comune. E non solo chi va effettivamente a combattere, ma tutta la comunità. La guerra spinge gli individui a comportarsi in modo onorevole per un obiettivo superiore. Emergono qualità come il coraggio, la disciplina, l’altruismo e lo spirito di sacrificio, che nella routine quotidiana magari rimangono sullo sfondo.

Dovremmo saper creare le condizioni per l’espressione di queste stesse qualità, senza che arrivino ad essere distruttive.

La guerra può paradossalmente essere scatenata da tutti quei valori che stimolano un forte senso di appartenenza e identità all’interno del proprio gruppo etnico, del proprio paese, della propria religione e così via. La rigida e ristretta identificazione con un particolare gruppo di appartenenza, rende automaticamente rivali e nemici tutti gli altri, perché il loro riconoscimento rappresenterebbe una minaccia per la stabilità identitaria.

È poi possibile, attraverso un processo di trasformazione degli altri a livelli inferiori, che per definizione non hanno diritti né vanno rispettati, spiegare le atrocità che l’essere umano può mettere in atto: sfruttare, opprimere e uccidere, senza sentirsi in colpa.

Viene di mano pensare che tutti quegli aspetti che hanno permesso alla specie umana di evolversi: la capacità di cooperare e convivere, lo sviluppo del linguaggio e del pensiero, lo sviluppo della mente narrativa e del senso di identità e appartenenza, saranno anche quelli che metteranno seriamente a rischio la sua sopravvivenza.

La guerra, combatterla, subirla, guardarla da lontano, stimola una costante condizione di allerta, di funzionamento in modalità di emergenza. Doversi sempre guardare le spalle, difendersi da un vicino nemico, non permette di progettare il futuro neanche se si è in una posizione di vantaggio. Sono condizioni che non si interrompono con la fine della guerra, ma proseguono fino a che qualcuno non ci farà sentire rassicurati. Ma se siamo tutti in emergenza chi potrà farlo?