Lavoro

La legge sul salario minimo senza il salario minimo. La truffa del governo ai lavoratori, sempre più poveri

Il ddl approvato non fissa una soglia e affida all'esecutivo il compito di "assicurare trattamenti retributivi giusti ed equi" con la controversa formula del "contratto collettivo più applicato"

La legge c’era, l’avevano presentata le opposizioni a inizio legislatura per introdurre un salario minimo legale e fissare una soglia inderogabile di 9 euro lordi l’ora. Perché già allora 3,5 milioni di lavoratori italiani non raggiungevano quella cifra, sotto la quale la paga oraria diventa incompatibile con l’articolo 36 della Costituzione, come innumerevoli sentenze avevano già stabilito, anche applicando la direttiva Ue 2041/2022 che dice “almeno il 50% del salario medio”. Che in base ai dati Inps, in Italia è pari a 8,9 euro lordi l’ora. Ecco il perché di quei 9 euro, il minimo per poter definire legale il salario in un Paese che ha subito la peggiore perdita di salario reale tra quelli Ocse, dove 5 milioni di lavoratori non arrivano a fine mese e il 9 per cento di quelli a tempo pieno vive già sotto la soglia di povertà, in aumento rispetto all’anno precedente e più del doppio rispetto al 3,7% della Germania, dove il salario minimo legale esiste, è stato elevato a 13 euro l’ora e si ragiona di alzarlo a 15.

Quello che 22 Paesi Ue hanno adottato, la maggioranza di governo continua a chiamarlo “misura da Unione sovietica” o ad andar bene “assistenzialismo”, tanto da aver sterilizzato le proposte delle opposizioni con una delega in bianco all’esecutivo di Giorgia Meloni, dove non c’è alcuna cifra (la parola euro non compare), solo l’auspicio di “trattamenti retributivi giusti ed equi”, aria fritta. “Una truffa”, l’hanno definita le opposizioni. “Inaccettabile” anche per Italia viva che la proposta di legge di Pd, M5s, Avs, Azione e +Europa non aveva voluto firmarla. Martedì in Senato hanno votato contro il ddl 957 che affida la partita a chi ha sempre respinto l’idea di un salario minimo legale: Meloni, Salvini e Tajani, game over.

Per capire quanto gliene importa della condizione di milioni di lavoratori poveri basta guardare le date. Dopo nove mesi e parecchi rinvii, l’idea della delega al governo arriva a novembre 2023, a pochi minuti dalla scadenza per la presentazione degli emendamenti in Commissione lavoro alla Camera. Per volere della maggioranza di governo, il Parlamento affida allo stesso governo il compito di scrivere le norme, da adottare in seguito con altri decreti legislativi. Ha sei mesi di tempo, ma intanto passano altri due anni: l’approvazione definitiva della delega è arrivata a Palazzo Madama solo ieri, 23 settembre 2025, mentre il presidente del Senato Ignazio La Russa e la ministra del Turismo Daniela Santanchè cenavano nel ristorante milanese dello chef Salt Bae, noto per le bistecche da oltre mille euro. A bocca asciutta rimangono invece milioni di lavoratori che, al posto del salario minimo, si ritrovano un disegno di legge che li esporrà più e peggio di prima ai contratti pirata, ai quali il governo spalanca le porte con la formula che, come trattamento minimo, indica quello del contratto collettivo più applicato nella categoria. “A far diventare un contratto il più applicato per un’intera categoria può bastare l’accordo tra i datori di lavoro e un sindacato compiacente“, sintetizza il problema Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro nella segreteria nazionale del Pd.

Più che una legge, il ddl approvato in Senato è un colpo di spugna sul diritto dei lavoratori ad avere un salario compatibile coi principi della Costituzione di una Repubblica fondata sul lavoro. Non viene fissato alcun valore minimo sotto il quale non si possa scendere. Al contrario, sostiene la maggioranza, si rafforza la contrattazione. “Rafforzando la contrattazione collettiva si stimola la riqualificazione professionale, si valorizzano le competenze, si riduce la precarietà, non solo nell’interesse dei lavoratori ma anche delle imprese con il coinvolgimento delle parti sociali”, ha spiegato in Aula la senatrice centrista Michaela Biancofiore. Tante belle parole, ma in sostanza si tratterà di definire i “contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati” (in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti) e di far sì che il trattamento economico complessivo minimo di questi diventi la condizione economica minima per l’intera categoria.

Eccola la truffa. Perché il tutto non è ancorato ad alcun criterio di rappresentatività reale dei lavoratori e resta altissimo il rischio di contratti “maggiormente applicati” perché a volerlo sono i datori insieme a qualche sigla sindacale compiacente, che magari i lavoratori nemmeno li rappresenta. Del resto, fanno notare le opposizioni, non c’è un solo passaggio del ddl approvato che preveda il confronto con le parti sociali, né con i sindacati né con le organizzazioni datoriali. Altro che “il ddl delega cambia il lavoro in italia”, come dicono da Fratelli d’Italia. Al lavoratore, sempre che ne abbia la forza, non resterà che appellarsi alla Costituzione di fronte all’ennesimo giudice del lavoro che però, nel dargli ragione, non potrà aiutare tutti gli altri. Perché ci vuole una legge sul salario minimo e questa, sia chiaro, non lo è.