
Quel giorno, alle 6.04, in una stradina periferica di Ferrara, di fianco a un parchetto, il cuore di un diciottenne smise di battere. Sull'asfalto rimase il suo corpo esanime con 54 ferite
“Tutto è iniziato a Ferrara”. Lo disse Ilaria Cucchi il 25 settembre di qualche anno fa. Perché tutto è iniziato il 25 settembre di venti anni fa.
Quel giorno, alle 6.04, in una stradina periferica della città degli Estensi, di fianco a un parchetto, il cuore di Federico Aldrovandi smise di battere. Sull’asfalto rimase il suo corpo esanime, senza una scarpa, con la maglietta sollevata dagli operatori del 118 chiamati troppo tardi.
Su quel corpo di diciottenne c’erano 54 ferite. Lesioni che “ne hanno deformato l’aspetto”, scriveva il giudice di primo grado. Al punto che lo zio Franco, cui spettò l’ingrato compito di riconoscere il nipote all’obitorio, chiese se fosse stato investito da un camion. Qual mattino in Via Ippodromo, oltre ai quattro agenti di Polizia che lo avevano “bastonato di brutto per mezz’ora”, si era concentrata gran parte della questura non appena appresa la notizia della morte.
Le prime ‘indagini’ hanno visto gli agenti suonare ogni campanello delle case attorno. Chiedevano se qualcuno avesse visto qualcosa.
Molti avevano visto tutto. Ma tacquero.
Tacque anche Anne Marie Tsegue, l’unica testimone oculare ad avere il coraggio di parlare. Davanti al giudice si giustificherà: aveva paura della Polizia dopo quello che aveva appena visto dalla finestra. Un misterioso macchinario si era messo in moto per fare in modo che da quel 25 settembre nulla nascesse. Gli amici del ragazzo vennero convocati in questura senza spiegazioni. Dissero loro che Federico era morto per uno “schioppone”. Li chiamarono “tossici”. Fecero loro credere di averlo trovato ormai privo di vita sopra una panchina.
Il questore di allora assicurò l’opinione pubblica: Federico non era morto per le botte. Poco dopo il procuratore capo convocò la stampa per riferire identica cosa. Nello stesso periodo il segretario nazionale del Sap, giunto a Ferrara, indice una conferenza stampa per dire che se non fosse stato per i quattro agenti “il ragazzo sarebbe ancora lì a sbattere la testa contro un palo”.
Il 6 luglio del 2009 arriva la condanna in primo grado per omicidio colposo a tre anni e sei mesi, ridotti a sei mesi per l’indulto. Appello e Cassazione confermeranno, mentre altri agenti verranno condannati per i depistaggi. Ma anche dopo quelle condanne quel macchinario si muove per far delegittimare e infangare la vittima e difendere i responsabili. Vedremo i poliziotti applaudire i colleghi condannati, manifestazioni davanti al luogo di lavoro della madre di Federico, insulti ai genitori e alla memoria di un ragazzo di 18 anni che ha avuto l’unica colpa di trovare di fronte a sé “quattro schegge impazzite”.
Ma dopo quel luglio qualcosa è cambiato. La pretesa perenne impunità dei crimini in divisa ha vacillato. E alcuni esiti processuali, come quello di Stefano Cucchi, lo hanno confermato.
Ecco perché “tutto è iniziato a Ferrara”. Anche se quel tutto non è ancora abbastanza, visto che oggi la madre di Federico, Patrizia Moretti, ammette che “nonostante tanto impegno, non vedo cambiamenti sostanziali. Anzi, le cose stanno peggiorando: leggi più restrittive, i quattro poliziotti già rientrati in servizio e nulla che davvero prevenga il ripetersi di ciò che è accaduto”.