
Presentato a Roma il World Nuclear Industry Status Report 2025. Gli esperti concordano: nel 2024 si è raggiunto il massimo storico dell'attività. Per mantenere lo stesso livello fino al 2030 ci vorrebbero 44 nuove centrali. Mentre e le rinnovabili avanzano con investimenti di 21 volte superiori
Il 2025 per l’energia nucleare non sarà da record come il 2024, anzi: la produzione dall’atomo è destinata a calare inesorabilmente entro il 2030 secondo le conclusioni del World Nuclear Industry Status Report 2025, il rapporto sullo stato dell’industria nucleare realizzato da organizzazioni e ricercatori indipendenti e presentato a Roma lunedì 22 settembre. Le cause: ritardi cronici, investimenti ridotti, maggiore competitività delle rinnovabili, tecnologie non ancora avviate né sviluppate. Per rimanere sugli stessi livelli al 2030 servirebbero 44 nuovi reattori costruiti a una velocità doppia rispetto ai tempi attuali. E i reattori modulari? “Cresce il divario tra clamore e realtà”.
Meno paesi coinvolti – In totale, ad oggi, ci sono centrali nucleari in 31 Paesi del mondo, per un totale di 408 reattori attivi e 33 fermi a lungo termine (cosiddetti Lto). Manca all’appello, rispetto al 2024, Taiwan che ha completato il suo phase out. Se si guarda alle centrali in costruzione, invece, si riduce il numero dei paesi coinvolti (11 rispetto ai 13 dell’anno scorso e ai 16 del 2023) mentre aumentano di cinque unità i progetti totali: oggi sono 63, di cui 32 della sola Cina (e di questi, 26 sono già in ritardo). Dal 2020 a metà 2025, in realtà, 44 dei 45 progetti avviati sono riconducibili a imprese statali cinesi o russe.
Rallentamento – In generale, nel 2024, la produzione mondiale di energia nucleare ha raggiunto il suo massimo storico, attestandosi a 2.677 terawattora, dopo due anni di calo. Tuttavia, secondo il rapporto, mantenere questo livello fino al 2030 è difficile. Per farlo, bisognerebbe dare avvio a 44 nuove centrali oltre a quelle già programmate con un ritmo di costruzione due volte e mezzo superiore. “L’età media dei reattori operativi è in aumento dal 1984 e si attesta a 32,4 anni a metà del 2025, rispetto ai 32 anni di metà del 2024 – si legge nel rapporto di quasi 600 pagine -. Due terzi della flotta operativa è in funzione da 31 o più anni e di questi, più di uno su tre da almeno 41 anni”. Negli ultimi cinque anni sono stati chiusi 28 reattori con un’età media di 43,2 anni.
La proiezione al 2030 – Per compensare le chiusure previste, spiega ancora il rapporto, “qualora tutte le estensioni di durata attualmente autorizzate fossero mantenute, tutti i cantieri fossero completati come previsto e tutte le altre unità fossero gestite per una durata di 40 anni” fino al 2030, il saldo netto sarebbe positivo nel 2026, per poi scendere in territorio negativo nel 2027-2029 seguito da un netto calo nel 2030. “Complessivamente, nel periodo 2025-2030, servirebbero 44 nuovi reattori, ovvero 26 GW, in aggiunta alle 59 unità già in costruzione e la cui entrata in funzione è prevista entro la fine del 2030, dovrebbero essere costruiti e messi in servizio (o le unità riavviate) per sostituire le chiusure previste”. Inoltre servirebbe accelerare tantissimo i tempi: “Un aumento del tasso di avvio annuale dell’ultimo decennio di un fattore 2,5, da 6,9 a 17,3 unità per gli anni rimanenti fino al 2030 (inclusi i reattori la cui entrata in funzione è già prevista entro il 2030) solo per mantenere lo status quo”.
Le cause – Tra le principali motivazioni del calo prospettato, i ritardi cronici nella realizzazione. Il report segnala come gran parte dei progetti indichino in 5 anni i tempi di costruzione e messa in moto delle centrali ma siano già quasi tutti in sensibile ritardo. Inoltre, in tutto il mondo le rinnovabili hanno raggiunto la cifra record di 28 miliardi di dollari di investimenti, ovvero “21 volte l’investimento globale registrato nell’energia nucleare”. E ancora: mentre i costi delle centrali nucleari continuano a salire, quelli delle batterie sono crollati di circa il 40% solo nel 2024. “Insieme, queste nuove tecnologie si stanno evolvendo verso un sistema energetico completamente elettrificato e altamente flessibile, che supera i tradizionali sistemi centralizzati basati su combustibili fossili e nucleari”, si legge nel rapporto.
Smr: “Divario tra clamore e realtà” – E a che punto sono i reattori piccoli e modulari che tanto affascinano il governo italiano e i ministri Pichetto Fratin e Adolfo Urso e che dovrebbero aiutare gli italiani a ridurre le bollette? Secondo il rapporto, poco è cambiato dalle prospettive già rilevate nel 2015. O meglio, una cosa è drammaticamente cambiata: “Il divario tra clamore e realtà industriale non ha mai smesso di crescere”. Si rileva come “aspetto significativo” il fatto che i governi stiano investendo ingenti somme di denaro negli SMR e organizzazioni internazionali e istituzioni finanziarie stiano iniziando a rendere disponibili i finanziamenti. “Alcune startup – si legge – stanno raccogliendo sempre più fondi privati, anche se in genere si limitano a integrare generosi finanziamenti pubblici”. L’Agenzia per l’Energia Nucleare dell’OCSE (NEA) ha stimato che il finanziamento pubblico/privato totale disponibile a livello mondiale per gli SMR ammonta a 15,4 miliardi di dollari. Ha incluso nella sua dashboard 74 progetti su un totale di 127 “il che significa che l’importo sarebbe distribuito in modo poco uniforme, a meno che un gran numero di progetti non venga abbandonato”. Viene citata NuScale che “ha già investito circa 2 miliardi di dollari e non ha ancora avviato alcuna costruzione”. Insomma, spiega il rapporto, finora, esiste solo una Certificazione di Progettazione e una Standard Design Approval (entrambe NuScale, USA), ma nessuna costruzione in Occidente mentre “due delle più grandi startup nucleari europee, Newcleo (in carenza di liquidità) e Naarea (insolvente), versano in gravi difficoltà finanziarie”
Focus Italia – La prefazione allo studio è della presidente del Kyoto Club Italia, Letizia Magaldi, che ricorda come a giugno la stessa Banca d’Italia, nel suo Occasional Paper “L’atomo fuggente” avesse evidenziato come il ritorno del nucleare difficilmente potrebbe avere un impatto significativo sul prezzo finale dell’elettricità, poiché anche i reattori modulari (gli smr di cui sopra) “rimangono investimenti ad alta intensità di capitale, caratterizzati da rendimenti spalmati sul lungo periodo”. Il principale contributo, dice, “non è quindi da ricercare in una riduzione dei costi immediati, quanto piuttosto nella capacità di stabilizzare la volatilità dei prezzi dell’elettricità, mitigando l’esposizione ai mercati internazionali e offrendo maggiore protezione a imprese e famiglie di fronte a possibili shock”.
Referendum e scorie. Il rapporto ricorda che l’Italia è stata tra i primi ad aprire una centrale nucleare (a Latina) nel 1963 per poi votare col referendum post- Chernobyl l’addio al suo uso commerciale. “Divenne il primo dei cinque Paesi ad abbandonare gradualmente l’uso di un programma nucleare commerciale attivo”. Poi, il secondo referendum a giugno 2011, tre mesi dopo l’inizio del disastro di Fukushima. “L’allora Presidente Berlusconi aveva pianificato di reintrodurre l’energia nucleare e aveva approvato una legge per consentire la costruzione di nuovi impianti nucleari, ma il 94% degli elettori italiani la respinse”. Quattordici anni dopo, il governo di Giorgia Meloni contempla la reintroduzione di un programma nucleare “mentre la dismissione degli impianti del primo programma è ancora in corso e non esiste ancora un sito per un deposito definitivo per le scorie nucleari”.