
Il cugino Enzo Gallo ha fondato un'associazione che coltiva la memoria del magistrato, beatificato dalla Chiesa Cattolica nel 2021: "Il dolore della famiglia è diventato collettivo"
Lo uccisero mentre si recava in tribunale, senza scorta. Sono trascorsi trentacinque anni da quel 21 settembre 1990 che segnò la morte del magistrato Rosario Livatino, assassinato da quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina. È passato alla storia come Il giudice ragazzino, titolo del film a lui dedicato (con l’intepretazione dall’attore Giulio Scarpati) ma anche locuzione attribuita all’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga a proposito di magistrati molto giovani mandati a combattere Cosa Nostra nell’avamposto della provincia siciliana.
Quella mattina a bordo della sua vettura, una vecchia Ford Fiesta color amaranto, venne speronato dall’auto dei killer. Tentò disperatamente una fuga a piedi attraverso i campi limitrofi ma, già ferito da un colpo a una spalla, fu raggiunto dopo poche decine di metri e freddato a colpi di pistola. Suo cugino Enzo Gallo era un giovane cronista de L’Ora e lo venne a sapere da una collega. Quella chiamata non se l’è più dimenticata tanto da impegnare parte della sua vita alla memoria del cugino assassinato. “Stamattina nella chiesa della città erano in tanti. Quest’anno al cimitero sono previsti ben due momenti per celebrare mio cugino. A Canicattì possiamo dire che il dolore della famiglia è diventato collettivo”, spiega Gallo, fondatore con altri dell’associazione Amici del giudice Rosario Angelo Livatino. Un’intuizione del papà di Livatino che, dopo la morte del figlio e della moglie, iniziò ad aprire la casa ai tanti che volevano conoscere più da vicino la figura del magistrato. Oggi, dopo 35 anni, sono ancora tanti a recarsi nell’Agrigentino per portare un omaggio sulla tomba di Livatino o per onorarlo alla stele installata sul luogo della strage.
Di lui si è occupato anche il Vaticano che lo ha beatificato il 9 maggio del 2021: si tratta del primo magistrato beato nella storia della Chiesa Cattolica. La camicia che Livatino indossava il giorno del suo omicidio è diventata una reliquia. In corso c’è anche un processo di beatificazione. “In questi anni come associazione ci siamo sforzati di parlare della sua quotidianità. Rosario aveva passatempi come tutti, ha avuto delle ragazze, era molto misurato e sapeva a cosa andava incontro”, sottolinea il cugino. Era così attento da non confidarsi mai con nessuno: “Diventato magistrato i genitori non permisero più a nessuno di frequentare la casa con facilità. Mia madre e la sua si frequentarono a lungo perché entrambe figlie uniche ma mio cugino non era solito parlare del suo lavoro con nessuno, nemmeno con me. Quando venne nominato un nuovo procuratore ad Agrigento mi permisi di chiedergli qualche informazione ma con uno sguardo che tradiva la risposta mi disse solo: un ottimo magistrato. Il segreto e la riservatezza erano fondamentali per lui”. Dopo così tanto tempo, Gallo, resta convinto che Rosario fosse cosciente del fatto che avrebbe potuto essere ammazzato: “E’ un’impressione avvalorata dagli elementi riscontrati nei fascicoli. Aveva messo in conto la sua fine fin dagli appunti scritti nelle agendine. Per non allarmare i genitori aveva rifiutato la scorta e aveva preso l’abitudine di viaggiare da solo consapevole che era in serio pericolo”.