
Dal "me ne frego" al "che mi frega": tra eredità ingombranti, fragilità economiche e nuove forme di violenza diffusa
di Graziano Lanzidei
L’auto incendiata nel parcheggio della stazione, con dentro un corpo ridotto in cenere, è solo l’ultimo episodio di una sequenza che inquieta Latina: le bombe ai Palazzi Arlecchino, le intimidazioni, le baby gang che trasformano il centro in terreno di scontro. La questione è arrivata in consiglio comunale, tra dichiarazioni grottesche e denunce di immobilismo dell’opposizione. È intervenuta la sindaca Celentano, parlando di una città che “non deve essere ostaggio di poche persone”. Non è più cronaca isolata: è un clima che racconta una fragilità profonda.
“La provincia è un campo di osservazione di prim’ordine. I fenomeni sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali” scriveva Luciano Bianciardi nel Lavoro culturale. Latina concentra e rende visibili le contraddizioni del Paese: fondata con il fascismo, feudo della DC, laboratorio della destra con Fini, poi convertita al civismo. Anche oggi è in linea con il clima nazionale e internazionale. Una città senza tradizioni a cui aggrapparsi, con il rischio di importare modelli dall’esterno anziché inventarne di propri.
Qualche radice però c’è. Antonio Pennacchi, ne Il Fasciocomunista, lo ricordava bene: “In ogni via del centro non puoi ancora fare un passo senza trovare un tombino di ghisa con il fascio e la scritta bella grossa: LITTORIA”. Latina è stata edificata sul me ne frego, che Emilio Gentile ha descritto come liturgia politica: pedagogia del sacrificio, culto della violenza, religione civile. Una violenza fondativa che ha lasciato un sedimento: i simboli restano sempre incisi nella memoria.
La violenza di oggi però non è eredità diretta di quella liturgia, ma effetto di una causa più vicina: l’isolamento. Latina è tagliata fuori dalle grandi infrastrutture del Paese. L’economia vive di entusiasmi improvvisi e cocenti delusioni. La fine della Cassa del Mezzogiorno e la chiusura della centrale nucleare furono un trauma profondo. Dopo essere nata dall’assistenzialismo della bonifica, la città aveva continuato a vivere della macchina statale con incentivi e finanziamenti. Quando quel flusso si interruppe, a metà degli anni Ottanta, l’economia tentò di riconvertirsi al terziario senza riuscirci. Da allora la crescita si è appoggiata a risorse incerte, incapaci di costruire un tessuto solido. In questa fragilità si annidano le crepe sociali di oggi.
Non sono mancati i tentativi di reazione. C’è stato un tempo in cui la “partecipazione” andò di moda: assemblee, comitati civici, patti di collaborazione, esperienze di cittadinanza attiva che provarono a dare voce ai bisogni reali, dal centro alla periferia. Ma quella stagione fu breve, incapace di radicarsi davvero. Al bene di tutti da queste parti ci ha sempre pensato uno Stato molto presente, mentre ognuno era concentrato sul proprio. Così, di quel senso civico, restano solo retoriche su sicurezza e decoro: proclami che promettono ordine, mentre la sensazione è di maggiore insicurezza.
Per raccontare Latina, lo sguardo esterno ha sempre avuto bisogno di un altrove. Prima della bonifica, la palude pontina era “l’Africa nera”: terra selvaggia e infestata dalla malaria. Un’eterotopia coloniale, raccontata come giungla da redimere. Con la bonifica la palude diventò agro e l’immaginario cambiò pelle: non più Africa, ma Far West. Lo scrisse già Corrado Alvaro in Terra Nuova, descrivendo i coloni su carri trainati da buoi: “Una scena quale si è vista in film del Far West”. Una frontiera agricola, narrata come avventura, ma incorniciata dal fascismo, che disciplinava anche quel mito.
Oggi l’eterotopia si è frantumata ancora. Non ci sono più paludi da redimere né frontiere da conquistare: ci sono la Louisiana del caporalato, il Kentucky della provincia violenta, la Kansas City o la Laredo che Pennacchi evocava nei suoi romanzi. Il Far West ha perso ogni connotato di speranza, ed è rimasto il senso diffuso di pericolo. Non più immagini di promessa, ma metafore importate per descrivere un presente che non trova parole proprie. È la conferma della diagnosi di Bianciardi: senza tradizioni forti, il rischio è guardarsi allo specchio con facce prese in prestito.
Dal “me ne frego” scolpito nella pietra al “che me frega” rassegnato di oggi sembra mancare un verbo di mezzo. Un “me ne importa”, o meglio un “ci tengo”. Non un richiamo astratto, ma un gesto concreto. È l’I care di don Milani, scritto sulla porta della scuola di Barbiana: non lasciare che il mondo scorra indifferente. “Ci tengo” vuol dire restare dentro le cose, non girarsi dall’altra parte. In fondo, è anche la lezione di Bianciardi quando parlava della provincia come campo di osservazione: vedere da vicino i fenomeni significa anche assumersi la responsabilità di interpretarli. Solo così la catena che lega il me ne frego al che me frega può essere spezzata.
La storia di questa città mostra come le eterotopie siano sempre servite a chi guardava dall’esterno: Africa, Far West, Louisiana. Ma Bianciardi aveva ragione: la provincia non è un altrove, è un campo di osservazione privilegiato. Qui i fenomeni si vedono con maggiore chiarezza, e per questo non possiamo fingere di ignorarli. Don Milani scrisse I care sulla porta della sua scuola per insegnare a non voltarsi dall’altra parte. A Latina, oggi, quelle due parole suonano meno come un invito e più come un avvertimento: la responsabilità è nostra.