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Migranti, effetto Corte di giustizia Ue. Giudice alla commissione asilo: “Perché il Bangladesh è Paese sicuro?”

Il tribunale di Bologna ha fissato l’udienza per la causa precedentemente rinviata alla Cgue e chiede alla commissione sulla base di quali fonti ha ritenuto il Paese "sicuro"

Quanto deciso il primo agosto dalla Corte di giustizia europea (Cgue) in risposta ai rinvii dei tribunali italiani sulla questione dei “Paesi d’origine sicuri”, ai fini dell’applicazione delle procedure d’asilo accelerate di frontiera viste anche in Albania, inizia a produrre effetti, a partire dall’obbligo del giudice nazionale di verificare sempre la compatibilità con le normative europee e l’attuale situazione del Paese d’origine designato come sicuro da uno Stato Ue, che è sempre tenuto a garantire l’accesso alle fonti informative alla base della designazione, sia al magistrato che al richiedente asilo. Tra i primi rinvii alla Cgue, quello del Tribunale di Bologna sul caso del ricorso contro il rigetto di una domanda di protezione internazionale di un richiedente del Bangladesh, respinta per “manifesta infondatezza” in quanto presentata dal cittadino di un Paese che il governo ha inserito nella lista di quelli “sicuri”, come previsto dal cosiddetto decreto Cutro che ai ricorrenti non riconosce più l’automatica sospensiva dell’espulsione o rimpatrio, eseguibili anche col giudizio ancora in corso.

Il rinvio del 25 ottobre 2024 del Tribunale di Bologna seguiva di poche settimana una precedente sentenza in cui i giudici di Lussemburgo confermavano che al giudice spetta sempre il dovere di verificare che il provvedimento di designazione di un paese come “di origine sicuro” rispetti le norme Ue. Incerta rimaneva la possibilità di designare un paese escludendo determinate categorie a rischio di persecuzioni generalizzate e sistematiche o di danno grave. Possibilità che il governo Meloni ha continuato a rivendicare mentre i giudici italiani a considerare incompatibile con la vigente normativa europea. Da qui la richiesta del giudice Marco Gattuso alla Cgue di chiarire il punto e di stabilire se il giudice sia vincolato alla lista governativa o se debba verificare autonomamente la sicurezza con informazioni aggiornate e alla luce della normativa. Con una sentenza a dir poco indigesta per il governo Meloni, la Corte ha confermato che, per designare un paese d’origine come sicuro, persecuzioni, torture o altri trattamenti inumani e degradanti devono essere assenti in modo “generale” e “costante”, per tutta la popolazione. E che l’ultima parola spetta comunque al giudice, obbligato a verificare se il paese è davvero sicuro come si sostiene.

Il tribunale di Bologna ha fissato ora l’udienza per trattare nel merito la causa precedentemente rinviata. Nel convocare le parti per il 28 ottobre, il giudice ha chiesto alla commissione territoriale di Forlì-Cesena che aveva respinto la domanda d’asilo le informative impiegate in fase istruttoria sulla situazione socio-politica-economica del Paese e dunque, in sostanza, sulla base di quali fonti è stato ritenuto che il Bangladesh dovesse essere considerato “Paese d’origine sicuro”. La richiesta riaccende i riflettori anche su un altro aspetto della faccenda. Diversamente dai precedenti decreti interministeriali, al decreto 158 del 21 ottobre 2024 che riformulava la lista dei Paesi d’origine sicuri, il governo non allegava le “schede paese” solitamente elaborate dalla Farnesina. Aveva promesso di produrle in seguito e di informare il Parlamento, che attenderà invano. Nella recente proposta di lista europea dei paesi d’origine sicuri, anche la Commissione Ue si è “dimenticata” le fonti informative, che invece i giudici della Cgue considerano essenziali perché le procedure basate sulle liste di paesi siano legittime.

Un altro provvedimento è quello cautelare emesso nei giorni scorsi dal Tribunale civile di Roma nei confronti di un tunisino che aveva presentato istanza di sospensione del rigetto della domanda di protezione internazionale. Nell’accogliere l’istanza, anche il Tribunale romano ha richiamato la sentenza della Cgue di agosto nella parte in cui impone agli Stati Ue di “adattare il loro diritto nazionale in un modo tale da garantire un accesso sufficiente e adeguato alle fonti di informazione sulle quali essi si sono basati per designare i Paesi di origine sicuri”. E siccome il già citato decreto 158/2024 non indica le fonti, il Tribunale non ha ritenuto legittimamente applicabile la procedura accelerata, dovendo “applicarsi la procedura ordinaria per l’esame della domanda di protezione internazionale”. Insomma, non si può indicare paesi d’origine sicuri in modo arbitrario, magari scegliendo i primi per numero di sbarchi. Un monito che varrà anche per la futura applicazione della riforma europea del diritto d’asilo tanto attesa dal governo. Al più tardi dal prossimo giugno, il Patto Ue migrazione e asilo consentirà sì di designare paesi d’origine sicuri ad eccezione di determinate categorie a rischio, ma non solleverà il giudice dall’obbligo di verificare tali designazioni, la bontà delle fonti, di valutarne altre e di stabilire se le normative siano state rispettate.