Società

Ripamolisani, un borgo in equilibrio tra un luogo spettrale e un altrove indefinito

Ripalimosani è in attesa, incerta, appesa nel tempo, invivibile e ammaliante, in urto con la civiltà, inattuale nel suo placido altrove

Verso Campobasso provenendo da Termoli sulla statale 647 dopo aver passato il lago di Guardialfiera, un invaso artificiale che visto da distante è così bello che sembra impossibile non sia lì da sempre, alla vostra destra scorgerete Ripalimosani appeso per aria. Svetta la cupola policroma della chiesa di Santa Maria Assunta in Cielo e ci si chiede chi mai possa vivere in quella nube di case affastellate che, in piena estate, evocano già un presepe. E così si prosegue. Ma l’immagine impressa di Ripalimosani persiste, rimane appiccicata addosso.

Così, dopo una visita a una uggiosa Campobasso già pronta per l’autunno, ci si ferma a Ripalimosani per scoprire cosa ci sia di così magnetico da costringere a una sosta. E si scopre che è la desolazione di un paese cadente, eppure pieno di meraviglia. La passeggiata inizia inerpicandosi su una ripida scalinata principale che porta al Palazzo Marchesale, adiacente alla chiesa. Diverse e tutte bellissime e scalcagnate sono le scale da affrontare per inoltrarsi tra le tipiche case da borgo medievale di Ripalimosani, e capitarci per caso è una delle più belle cose che mi potevano capitare girando per il Molise.

Il tramonto rende Ripalimosani in equilibrio tra un luogo spettrale e un altrove indefinito che spinge a connettere passato e presente, a rendere familiare, ad orientare la propria coscienza e sentire l’ineffabile privilegio di scorgere ricchezza nella desolazione. Ma forse non è la parola del tutto giusta. Forse Ripalimosani è in attesa, incerta, appesa nel tempo, invivibile e ammaliante, in urto con la civiltà, inattuale nel suo placido altrove che allenta la frenesia di dover andare da qualche parte. E a maggior ragione dopo aver visto luoghi turistici chiassosi e artificiali attraversati in un viaggio lungo l’Italia adriatica, Ripalimosani appare come destinazione naturale e un riposo, al riparo dall’urto angoscioso della “techno-intelligente” civiltà.

Molte case di Ripalimosani sembrano abbandonate di fretta e furia, salvo qualcuno non c’è nessuno. Le porte sono semiaperte ed è possibile scorgere all’interno ancora brandelli di un qualche povero arredo. Flussi di popoli antichi hanno lasciato qualcosa di ineffabile, e le rovine sconcertano, contrastano i valori eterni che, nonostante tutto, emanano da Ripalimosani.

Salendo in cima, ho scorto un seminascosto bar con un piccolo gruppo di uomini seduti, intenti a bere e chiacchierare in un dialetto incomprensibile, e ho pensato ad un saloon del Far West, a quegli sguardi e a quei silenzi intensi che si creano quando gli avventori scorgono uno straniero che transita davanti a loro. E poi sulla sommità, da una porta della chiesa che è disposta su tre livelli, ecco il vociare di bambini che provano uno spettacolo teatrale per la festa del patrono San Michele, il 29 settembre, suppongo. Il richiamo delle loro voci è in perfetta sintonia con Ripalimosani, speciale e genuina, fatta di piccole cose, momenti di gioco, scoperta e affetto.

Mentre scendevamo lungo il dedalo di scale e case, così appiccicate tra loro che sembrano sostenersi l’una con l’altra, una famiglia nigeriana, in ghingheri sgargianti, esce da una casa, forse per andare fuori a cena. E mi sovviene che è sabato anche a Ripalimosani, dove pensavo che il tempo non esistesse per davvero. “E’ tempo di andare”, mi dico, chissà cos’altro nasconde Ripalimosani, ormai alle mie spalle.

E penso che in questi giorni, mentre le guerre generano morte e distruzione e assistiamo in mondovisione allo sterminio di un popolo, la desolazione, l’assenza e l’incanto di Ripalimosani sembrano un monito silente contro il vero vuoto: la desertificazione del sentire umano.
Ciao Molise, arrivederci e grazie.