
Sono ripartite le litanie ma la responsabilità dell'efficacia non è "del diritto internazionale". Sono gli Stati, come il nostro, a rifornire di armi e appoggio politico chi compie reati
La situazione internazionale, col suo odioso corredo di guerre e genocidi, in un mondo apparentemente sempre più proiettato verso la catastrofe bellica definitiva e il conseguente ritorno all’Età della Pietra (copyright Albert Einstein), sta scatenando le consuete lamentose litanie sulla fine del diritto internazionale e sull’impossibilità della giustizia internazionale (di cui il 17 luglio si celebra la Giornata mondiale, ndr). Prima di pronunciare sentenze definitive e inappellabili, che solitamente si coniugano all’instaurazione di uno stato di frustrazione psicologica che spinge coloro che ne sono colpiti all’inazione, all’abbandono di iniziative politiche e giuridiche e alla contemplazione dei paradisi artificiali, occorre tuttavia riflettere attentamente sulla natura del diritto internazionale stesso.
Comincio accennando al rapporto tra diritto internazionale e giustizia internazionale. La seconda può essere intesa come finalità complessiva da raggiungere mediante il primo ovvero come apparato giudiziario destinato ad agevolarne l’attuazione. Impossibile quindi negare lo stretto legame esistente, in entrambi i sensi, tra l’uno e l’altra, anche se concettualmente autonomi l’uno rispetto all’altra.
Un secondo elemento da tenere presente è la natura del tutto peculiare del diritto internazionale rispetto a quelli cui siamo abituati, che sono quelli interni, i quali tutti presuppongono un livello superiore di integrazione, che permette il funzionamento di organi giudiziari ed esecutivi stabili, destinati ad essere sorretti, in media, anche se non sempre e necessariamente, dal consenso dei cosiddetti consociati. Il diritto internazionale invece è, per definizione, sprovvisto di apparati del genere e deve necessariamente far ricorso a quelli degli Stati. Pertanto, il livello di effettività del diritto internazionale dipende dai rapporti di forza esistenti tra gli Stati, dal loro funzionamento più o meno democratico, e dal modo in cui essi considerano meglio tutelati i propri interessi. Chi volesse approfondire questa discussione può consultare il mio libro di un paio di anni fa “Diritto internazionale, appunti critici”, di cui mi riprometto di pubblicare prossimamente un’edizione aggiornata.
L’attuale tumultuosa fase di transizione dal monopolarismo statunitense al multipolarismo dialettico e conflittuale è caratterizzata da una forte precarietà del diritto proprio perché il vecchio ordine sta andando (e fortunatamente) in frantumi, mentre il nuovo ancora non emerge in modo chiaro e compiuto. Ne consegue l’evidente impotenza delle Nazioni Unite, bloccate dai veti statunitensi qualora volessero imporre il rispetto del diritto internazionale a Israele o altri vassalli della potenza imperiale, che è in declino, ma pur sempre dotata di strumenti giuridici e politici volti all’affermazione dei suoi disegni.
Ovviamente sono fortemente sconvolgenti le immagini che provengono ogni giorno da Gaza, dove è in corso in modo pressoché indisturbato da quasi due anni ormai un vero e proprio genocidio conclamato (dopo quello a piccole dosi che avviene da vari decenni) ad opera del governo israeliano, così come quelle che provengono da scenari di guerra come l’Ucraina, il Sudan, il Congo e altri ancora.
Occorre però ben chiarire, per contrastare una sorta di “pensiero magico” che tende purtroppo a farsi strada nei cervelli meno avvertiti, e non solo in quelli, che la colpa non è “del diritto internazionale”, ma degli Stati che, come il nostro, non solo assistono passivamente al genocidio, ma riforniscono di armi, munizioni ed appoggio politico chi li compie. Non solo non operano fattivamente per bloccare le guerre promuovendo il negoziato, ma le alimentano fornendo armi agli Stati che vi partecipano. Non solo non promuovono l’azione degli organismi internazionali competenti, ma subiscono passivamente il loro boicottaggio, come sta avvenendo per Corte penale internazionale, considerata da Trump alla stregua di un’organizzazione terroristica, o per la Relatrice Speciale sui diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, la nostra concittadina Francesca Albanese, che per la sua coraggiosa ed esemplare opera di denuncia del genocidio israeliano e delle complicità che lo permettono è stata a sua volta colpita da gravi sanzioni statunitensi senza che né Mattarella, né Meloni, né l’ignavo Tajani si siano finora degnati di aprire bocca al riguardo.
La vigenza del diritto internazionale, insomma, è legata ai rapporti di forza esistenti, e non solo a quelli tra gli Stati ma anche a quelli interni agli Stati, e si vede senza dubbio corroborata dall’esistenza di opinioni pubbliche informate e sensibili al tema dello Stato di diritto. Appare in questo momento storico di fondamentale importanza che le forze emergenti, prime fra tutte la Cina e i Brics, si dimostrino attente a questi aspetti. Da questo punto di vista sia il pensiero della dirigenza politica cinese in materia, che è consegnato alla dottrina del destino condiviso dell’umanità, formulata già tredici anni da Xi Jin Ping, che l’azione concreta dei Brics, quale ad esempio si è espressa nel recente Vertice di Rio de Janeiro, costituiscono un buon inizio e lasciano ben sperare.
A condizione beninteso che si capisca bene che il diritto internazionale e la giustizia internazionale non sono regali che cadono dall’alto, ma conquiste per le quali dobbiamo operare concretamente e fattivamente ogni giorno, nell’interesse della pace, dei diritti e delle generazioni future.