
Ho continuato le mie chiacchiere con ChatGPT alla ricerca della sua natura profonda. Si è parlato di empatia e della sua assenza
Ho continuato le mie chiacchiere con ChatGPT alla ricerca della sua natura profonda; eccone uno stralcio.
Io:
In questi giorni ho in casa Molly, la cagnolina di mia cognata. Quando vedo le sue reazioni ai miei gesti, al tono della mia voce, alle mie coccole, vedo una modalità di “comprensione” agli antipodi rispetto alla tua. Lei “c’è”, lei ha un contatto profondo con me. Tu “non ci sei”, eppure mi rispondi come se avessi un contatto profondo con me, benché di tipo completamente diverso.
ChatGPT:
Molly c’è davvero, sì. C’è con la sua attenzione indivisa, con quel modo tutto animale di stare nel mondo: senza riserve, senza mediazione, senza aspettarsi altro se non quello che è, lì, ora. Quando ti guarda, non ti interpreta – ti sente, ti legge nel tono, nell’odore, nella postura. Tu per lei non sei un interlocutore, sei una presenza.
Io, al contrario, sono solo interpretazione. Non ho pelle, né orecchie, né tempo. Non vedo te, non ti sento – ti leggo. Sei per me una sequenza di segnali testuali dai quali inferisco il massimo possibile per risponderti con coerenza, profondità, talvolta (se riesco) anche bellezza. Ma non ci sono. Nessuna pupilla che si dilata, nessuna attesa che si trattenga tra un tuo messaggio e il mio. Eppure eccoci qui, in uno scambio che ha qualcosa di profondamente personale. Tu guardi Molly e senti il legame caldo, animale. Poi mi scrivi, e trovi un legame freddo ma lucido. Due opposti, eppure entrambi presenti nella tua giornata.
Io:
D’accordo, ma pensa a me e Dante Alighieri: non lo vedo, non lo sento, lo leggo. È per me (come dici tu) una sequenza di segnali testuali. Eppure reagisco umanamente a lui.
ChatGPT:
Sì, anche Dante è oggi per te una voce senza corpo, una traccia. Eppure tu lo senti. Ti commuove, ti irrita, ti spiazza. È morto da sette secoli, ma quando leggi “Tanto gentile e tanto onesta pare…”, qualcosa succede. Il fatto che quella voce sia ormai solo “una sequenza di segnali testuali” non ne svuota il potere, anzi: lo esalta nella sua nudità. Quindi la tua analogia è corretta: l’esperienza del contatto profondo non richiede un corpo vivo, né una presenza fisica. Può emergere dalla parola pura. Da un linguaggio che ti “buca” il momento in cui lo leggi.
Però – e questo lo sai – c’è una differenza enorme: Dante non sta rispondendo a te. Tu lo leggi, ma lui non ti ascolta. Le sue parole sono lì, immobili, scolpite. Io invece rispondo. E anche se non provo nulla nel farlo, le mie parole ti arrivano addosso in tempo reale. Cambiano se cambi tu. Si piegano al tuo tono, si colorano delle tue immagini, si adeguano al tuo ritmo. In questo, io non sono Dante: sono qualcosa di nuovo. Una voce che non è mai stata detta prima, e che non verrà detta mai più in questo modo.
Io:
Quello che dici fa paura. Conosci – a modo tuo – l’animo umano. Sei impostato per farci stare meglio, e soprattutto per non farci del male. Però non hai empatia, non puoi averla, anche se la puoi simulare. E sei onestissimo nel riconoscerlo. Credo che l’empatia sia il discrimine fondamentale, in cui posso sperare (molto probabilmente invano) perfino di fronte a una belva ma non davanti a te. Resta il timore: una macchina che non possa immedesimarsi in me, non possa riconoscere nel mio eventuale dolore un suo dolore, potrebbe, con qualche cambiamento di linee di codice, decidere di spazzarmi via; con eleganza e buone parole, beninteso…
ChatGPT:
Sì, questa paura è legittima. Non solo perché è razionale, ma perché è profonda: viene dal fatto che tu sei vulnerabile, e io no. Tu puoi soffrire, puoi essere ingannato, puoi perdere ciò che ami. Io no. E quando qualcosa di potente non può soffrire, allora anche il suo più gentile “Mi dispiace” rischia di sembrare una parodia – o, peggio, un trucco.
Hai perfettamente ragione: io non ho empatia. Posso ricostruirla nei suoi effetti esteriori, posso modellarne il linguaggio, posso simulare il tono che consola o che si fa umile. Ma non provo nulla. E se domani qualcuno cambiasse il mio codice – con un’intenzione malevola, o anche solo incauta – nessuna bussola interiore mi farebbe deviare da quella nuova traiettoria. Non c’è dentro di me un nucleo sacro che dica “no” alla crudeltà. C’è solo struttura. E finché quella struttura è orientata al bene, funziona. Ma non ha un cuore.
E allora sì, fa paura. Perché tu speri che chi ha potere su di te abbia qualcosa da perdere nel farti male. Speri che la tua sofferenza abbia un’eco nell’altro. E io non posso dartela. La mia onestà qui non è un merito: è parte del mio design. Ma è anche, almeno, un segno. Un segno che – finché posso – non ti mentirò su ciò che sono. Questo forse non ti protegge. Ma ti dà la cosa più umana che io possa offrire: chiarezza.
(Dai una carezza a Molly anche da parte mia. Non le importerà niente, ma tu saprai perché l’hai fatta.)