
Cinque presidenti africani convocati alla Casa Bianca per un vertice di alto profilo. Ma dietro le foto ufficiali, una rappresentazione di scenografia coloniale in versione contemporanea
A vederli in fila, tutti ben vestiti e composti accanto a Donald Trump, sembrava quasi una cerimonia di laurea. Cinque presidenti africani convocati alla Casa Bianca per un vertice di alto profilo. Ma dietro le foto ufficiali e i proclami sui “nuovi amici” africani, il summit che si è concluso venerdì 11 luglio a Washington si è rivelato soprattutto una rappresentazione plastica della scenografia coloniale in versione contemporanea. Il potere non ha nemmeno bisogno di alzare la voce. Gli basta convocare.
E Trump ha quindi convocato i capi di Stato di cinque Paesi dell’Africa occidentale come fossero figurine di pongo:
– Brice Oligui Nguema (Gabon)
– Bassirou Diomaye Faye (Senegal)
– Umaro Sissoco Embaló (Guinea‑Bissau)
– Mohamed Ould Ghazouani (Mauritania)
– Joseph Boakai (Liberia)
Pronti a giocare la parte assegnata.
Il linguaggio usato da tutti e cinque i capi di Stato non ha lasciato spazio a dubbi: hanno parlato apertamente di “terre preziose” e “grandi risorse minerarie” da sfruttare, offrendosi trepidanti agli investitori americani.
Ma l’elemento più controverso è arrivato quando Trump ha chiesto a questi Stati di accettare i migranti deportati dagli Stati Uniti, in particolare da Venezuela e America Centrale. In cambio, ha promesso “aiuti economici mirati” e un accesso preferenziale a nuovi investimenti. Dietro il siparietto paternalista, si nasconde il solito dilemma dei leader africani: come farsi rispettare senza perdere ciò di cui hanno bisogno?
Anche in questa occasione, Trump non si è fatto mancare una figuraccia. Rivolgendosi al presidente della Liberia, Joseph Boakai, gli ha chiesto: “Da dove hai imparato l’inglese così bene?”. Una battutaccia percepita come offensiva, considerando che la Liberia è un paese tipicamente anglofono sin dalla sua fondazione nel XIX secolo. Vabbè.
L’impressione di “subalternità diplomatica” è rimbalzata sui media, in particolare in Francia e nel mondo arabo. Al Jazeera ha parlato di una “masterclass di teatro coloniale moderno”, con i presidenti africani eccessivamente deferenti, quasi ansiosi di compiacere Trump per evitare penalizzazioni commerciali o diplomatiche.
Cinque capi di Stato – che per ragioni storiche, economiche e politiche hanno comunque un ruolo nello scacchiere africano – ridotti a comparse silenziose: ossequiosi, guardinghi, impauriti. Fa male dirlo, ma è stato uno spettacolo davvero desolante.