Ambiente

Dopo le terre rare, i fondali oceanici: Marevivo e la comunità scientifica contro la nuova frontiera di Trump

Il deep-sea mining serve a ottenere minerali e metalli strategici utili a dispositivi elettronici, auto elettriche, turbine eoliche per la transizione ecologica, che rischia però di compromettere irreversibilmente ecosistemi delicati e sconosciuti

di Marevivo*

“Make America Great Again”. A ogni costo. Per strappare alla Cina il controllo delle terre rare, Trump dà il via libera al deep-sea mining nelle acque esclusive Usa, al largo di Hawaii e Marianne, ignorando gli allarmi scientifici sui gravi rischi per gli ecosistemi profondi. Il trumpismo ignora la salute degli oceani, devastati da crisi climatica, overfishing, inquinamento. Eppure c’è vita solo grazie al mare e negli abissi si gioca il futuro del Pianeta.

Il deep-sea mining (l’estrazione di fonti energetiche fossili e di minerali dai fondali oceanici, dalle sorgenti idrotermali profonde e dalle croste vulcaniche sommerse) è una delle frontiere più controverse dello sfruttamento ambientale. Una soluzione per ottenere minerali e metalli strategici utili a dispositivi elettronici, auto elettriche, turbine eoliche per la transizione ecologica, che rischia però di compromettere irreversibilmente ecosistemi delicati e sconosciuti. Lo studio “Long-term impact and biological recovery in a deep-sea mining track” pubblicato su Nature nel 2023, conferma l’estrema vulnerabilità dei fondali marini. Nella zona Clarion-Clipperton (Pacifico centrale), a 40 anni da una simulazione di estrazione, le tracce di disturbo sono ancora visibili e la biodiversità non si è ripresa. Le comunità bentoniche mostrano impoverimento persistente e, in certi casi, assenza di recupero. La Clarion-Clipperton Zone, un’area vasta quanto l’Unione Europea, è ricca di noduli polimetallici, concrezioni concentriche di minerali tra cui manganese, rame, cobalto, molibdeno, titanio, litio, terre rare e altri metalli preziosi tra cui oro, iridio e palladio, che vale tre volte più dell’oro. Ogni metro quadro di questi campi di noduli contiene in media 15 kg di minerali. Ma per crescere di soli 10-20 mm i noduli impiegano anche milioni di anni. Essi costituiscono habitat per numerose specie marine, che creano una complessa rete trofica essenziale al funzionamento dell’ecosistema abissale. Rimuovere questi noduli implica la perdita di microhabitat e biodiversità, il sollevamento nella colonna d’acqua di enormi nubi di sedimenti (che possono soffocare organismi distanti centinaia di chilometri) e il rilascio di metalli pesanti e contaminanti nei sistemi pelagici e bentonici.

I noduli si raccolgono con enormi bulldozer cingolati, giganteschi aspirapolvere subacquei che aspirano i fondali con sifoni larghi oltre 10 metri. Inoltre, il deep-sea mining produce l’alterazione dei cicli biogeochimici dei sedimenti abissali, fondamentali per la rigenerazione dei nutrienti. C’è il rischio di compromettere la capacità rigenerativa degli oceani. Il restauro dei fondali profondi danneggiati da questa attività ha tempi molto lenti: “Le conseguenze di questa distruzione fisica dell’ambiente profondo sono forti e persistenti – dice il Prof. Roberto Danovaro, biologo e docente di Ecologia all’Università politecnica delle Marche -. E i costi del restauro dei fondali devastati sarebbero più elevati del guadagno”. Il ripristino degli ecosistemi potrebbe costare 5,3 miliardi di dollari entro il 2030, più dei 4,4 miliardi stimati come ricavi dal deep-sea mining. Servono nuove tecnologie, come l’IA con modelli predittivi, per estrarre minerali senza danni ambientali irreversibili e approcci ispirati all’economia circolare.

Senza un quadro normativo internazionale vincolante, ogni Paese può sentirsi legittimato a sfruttare unilateralmente le acque profonde, anche al di fuori di quelle territoriali nazionali, indebolendo l’autorità dell’International Seabed Authority e impedendo la protezione dei beni comuni globali. “Trump ha fatto una fuga in avanti che mette in difficoltà la comunità scientifica internazionale, intenta a trovare modalità di estrazione più sostenibili – rilancia Danovaro -. L’ISA è preoccupata perché l’ordine di Trump va contro il Trattato internazionale degli Oceani sottoscritto dall’Onu”.

Anche l’Italia si prepara a sfruttare l’underwater e il ddl del ministro Musumeci regola le crescenti attività su mare e fondali, un business globale da 50 miliardi l’anno dove Fincantieri e Marina Militare sono protagoniste. “L’Università Politecnica delle Marche partecipa da oltre 6 anni ai progetti europei del JPIO sugli impatti del deep-sea mining. Il terzo progetto partirà il 1° luglio e conferma l’impegno italiano per soluzioni più sostenibili”, conclude Danovaro.

Gli abissi, la più vasta area wilderness del Pianeta, sono ancora quasi del tutto inesplorati e custodiscono tesori di biodiversità. Sacrificarli a logiche utilitaristiche potrebbe rivelarsi fatale. Gli ecosistemi marini profondi regolano il clima e i cicli biogeochimici, l’assorbimento e la detossificazione dei rifiuti. Vanno protetti, se non per il Pianeta, per egoismo di specie.

*Marevivo da anni fa parte della Deep Sea Conservation Coalition (DSCC), una coalizione di oltre 130 organizzazioni impegnata da 20 anni a tutelare gli ecosistemi profondi e promuovere una moratoria globale sul deep-sea mining.