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L’Europa sta lasciando sola la piazza turca di fronte all’autoritarismo di Erdogan

È evidente che il presidente abbia ben scelto il momento per operare l'epurazione di İmamoğlu, sfruttando le contingenze internazionali che lo blindano sul piano diplomatico

di Claudia De Martino

Fa quasi sorridere pensare che, quando Recep Tayyip Erdoğan fu eletto per la prima volta tra le fila dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) nel lontano 2002, venne accolto dalla società turca come il difensore della democrazia contro la dittatura militare e dei partiti laici con essa collusi. A distanza di oltre vent’anni, la figura di Erdoğan si identifica talmente con il potere da aver modificato la costituzione trasformando la Turchia in un regime presidenziale nel 2017 e arrivare a contemplare una seconda riforma costituzionale, non ancora varata, per poter essere rieletto Presidente nel 2028, fino a far arrestare il suo principale rivale elettorale, Ekrem İmamoğlu, pur di bloccare qualsiasi via all’alternanza politica lo scorso 19 marzo.

Quando Erdoğan ha fatto arrestare il suo maggiore antagonista politico con fantomatiche accuse come corruzione e terrorismo – anche se il secondo capo d’accusa è stato poi abbandonato dalla magistratura –, il suo maldestro tentativo di eliminare tutti i potenziali avversari per via giudiziaria non è passato inosservato in Turchia, dove è stato accolto da numerose manifestazioni di protesta, che hanno condotto centinaia di migliaia di cittadini in piazza. İmamoğlu, attuale sindaco di Istanbul, è infatti un esponente del Partito Repubblicano (CHP) e una figura politica popolare e carismatica nel Paese, avendo ottenuto oltre quindici milioni di voti alle scorse elezioni municipali (aprile 2024) che hanno fortemente ridimensionato il peso dell’AKP, ed essendo stato riconfermato per un secondo mandato alla guida della capitale, che da sola conta un quinto della popolazione del Paese (16 milioni). Manifestazioni di solidarietà contro il suo arresto si succedono ormai da oltre due settimane e si sono tenute complessivamente in ben 51 delle 81 province turche.

La mossa politica di Erdoğan ha spiazzato gli osservatori stranieri, che si sono interrogati non tanto sul crescente autoritarismo del Presidente, accentuatosi dal fallito colpo di Stato del luglio 2016 e già evidente nella rimozione coatta dalle loro funzioni di 10 sindaci regolarmente eletti vicini al partito curdo (DEM) o semplicemente anti-AKP, ma sulla estrema precocità dell’arresto rispetto alle elezioni presidenziali del 2028. Certamente, la mossa sembra prematura rispetto al calendario interno dei lavori, ma non se si considera il quadro internazionale, che vede la Turchia all’apice della sua potenza regionale, dopo aver contributo al trionfale cambio di regime in Siria del dicembre scorso che ha portato alla caduta del regime Assad dopo oltre cinquant’anni (dal 1971), ed essersi brillantemente posizionata al crocevia delle tensioni tra Europa e Russia sul versante ucraino.

I più sottolineano quanto la Turchia sia oggi diventata un “attore fondamentale” su entrambi gli scacchieri, europeo e mediorientale: in Medio oriente, il colpo di stato jihadista in Siria ha fornito il colpo letale all’Asse della resistenza iraniano, spezzandone l’unità territoriale con il Libano dopo l’offensiva altrettanto fatale di Israele contro Hezbollah; in Europa, invece, ad un’Unione divisa al proprio interno e poco disposta a schierare truppe in Ucraina che affronta la minaccia militare russa con sempre maggiore apprensione, la Turchia offre a garanzia il secondo esercito di terra per numero di effettivi nella Nato (secondo solo agli Usa, con i suoi 355.200 soldati). In aggiunta, il terzo asse strategico è rappresentato dalla carta dei 3.1 milioni di rifugiati siriani ospitati sul suo territorio, molti dei quali vorrebbero ancora proseguire per l’Europa ma vi sono bloccati dagli accordi Ue-Turchia del 2016.

Non stupisce, quindi, che, dopo l’attacco spregiudicato alla democrazia dello scorso 19 marzo, poche voci si siano levate in Europa (e ancora meno negli Usa) per protestare contro la repressione, nonostante gli oltre duemila arresti di studenti, giornalisti e cittadini comuni realizzati dalla polizia nelle manifestazioni non autorizzate e l’oscuramento dei principali social media. Mentre alcuni comunicati di denuncia sono provenuti dal Parlamento europeo e azioni di solidarietà sono state spontaneamente indette dai sindaci europei nei confronti del collega İmamoğlu (si veda la lista di città aderenti appartenenti alla rete Eurocities), i vertici della Commissione europea si sono dimostrati molto timidi, invitando la Turchia a fornire “trasparenza ed un processo equo” a tutti gli arrestati, nel rispetto della “lunga tradizione democratica turca” (si veda il burocratico comunicato del Seae). Anche l’ufficio federale tedesco si è limitato ad un laconico comunicato, senza adottare contromisure, nonostante l’importanza e l’ampia rappresentanza dell’AKP in Germania, che dirige oltre 1000 moschee del Paese attraverso il Diyanet, l’autorità religiosa governativa. Non sono proprio pervenute dichiarazioni, come ha sottolineato La Repubblica, dal governo Meloni, che ha semplicemente ignorato l’accaduto, in buona compagnia di altri governi europei di estrema destra.

È evidente che Erdoğan abbia ben scelto il momento di operare la sua epurazione politica, sfruttando le contingenze internazionali che lo blindano sul piano diplomatico. Alcuni commentatori suggeriscono che l’unica ripercussione di questa ulteriore involuzione autoritaria per la Turchia potrebbe essere il definitivo congelamento del processo di adesione all’Ue, già di fatto in stallo dal 2018, ma questa rappresenterebbe la misura più paradossale e iniqua, in quanto colpirebbe unicamente gli interessi della società civile oggi in piazza impegnata a protestare contro le misure autoritarie del regime, che invece andrebbe sostenuta con una mobilitazione politica importante in tutta Europa.

Il cinismo delle istituzioni Ue e dei governi europei nel caso turco dimostra quanto tutti i valori e i diritti siano negoziabili anche all’interno dell’alleanza atlantica, e che non vi sia più alcun argine al crescente autoritarismo nel mondo nemmeno in Europa. Nonostante la palese ingiustizia subita, İmamoğlu è destinato a marcire nel carcere di Marmara Cezaevi insieme ad altri influenti oppositori di Erdoğan, quali Osman Kavala, organizzatore delle proteste del 2013 a Gezi Park e Selahattin Demirtaş, ex leader del partito curdo (DEM), nell’indifferenza generale. Tuttavia, c’è da chiedersi cosa possa tenere ancora insieme i Paesi d’Europa se le istituzioni Ue non difendono più la democrazia nemmeno nei Paesi candidati: non era per questo che si era scesi in campo a fianco dell’Ucraina?

* ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali