Mafie

Don Patriciello: “Nessuna clemenza per Sandokan”. Per il processo sugli appalti Rfi il boss potrebbe essere chiamato a testimoniare

Da sempre impegnato in prima fila contro la camorra e le sue devastanti conseguenze sulle persone e sul territorio, don Maurizio Patriciello neanche questa volta si è tirato indietro per dire la sua sull’annunciato pentimento di Francesco Schiavone detto Sandokan. Il boss simbolo del clan dei Casalesi, il criminale che spodestò Antonio Bardellino ridisegnando la mappa criminale del clan, ha seminato terrore nell’agro aversano tra gli anni ’80 e ’90 e morte con il sotterramento nei campi dei rifiuti tossici delle aziende del Nord provocando nell’area una incidenza altissima di morti per tumore.

“La storia sia spietata” – “Io gli direi, indietro non si torna. Puoi chiedere perdono solo a Dio che è morto in croce anche per te e chiedere perdono a questo popolo a cui hai fatto tanto male. Io sono un prete e parlo da prete. Ma dal punto di vista storico nessuna clemenza. La storia deve essere spietata, com’è stato spietato il loro clan. Bisogna dire e raccontare ai posteri quello che è successo nei nostri territori, alla nostra gente, quello che noi abbiamo subito. Quanti funerali ho fatto a bambini, giovani mamme, giovani papà” dice il parroco di Caivano, memore della strage contro cui per anni ha combattuto.

In una intervista a Repubblica don Patriciello, minacciato dai criminali e per questo sotto scorta, riflette su come Schiavone possa contribuire volendo in qualche modo tentare di riparare agli effetti del nefasto dominio sul territorio ovvero restituendo “tutti soldi che hanno guadagnato con la violenza e la paura e che lui sicuramente sa dove sono occultati. Inoltre potrebbe raccontare tutto sui colletti bianchi che li hanno protetti. Ricordo quando incontrai il cugino, Carmine Schiavone. Mi disse: don Patriciello, senza la protezione dei colletti bianchi e della politica noi camorristi saremmo rimasti solo una banda di piccoli delinquenti di paese”.

Don Patriciello spiega che incontrerebbe il boss per dirgli che ha “fallito tutto nella vita. Alcuni dei tuoi figli già sono in carcere. Hai il terrore che da un giorno all’altro i clan rivali te li potrebbero ammazzare. Vivi con il terrore della giustizia. E questa me la chiami vita? Devi avere il coraggio di dire: io ho fallito tutto nella mia vita”. Se la sua collaborazione con la giustizia non è soltanto uno stratagemma per uscire da quel carcere duro a cui è sottoposto da 26 anni si vedrà con il tempo e con la lettura dei verbali agli inquirenti.

“Si penta davanti a Dio e agli uomini” – “La sua potrebbe essere una mossa scaltra. Ma so anche che il Signore tocca il profondo del nostro cuore. D’altronde, non è un caso che questo ravvedimento arrivi nello stesso mese e nello stesso anno in cui abbiamo celebrato il trentennale dell’uccisione di don Peppe Diana. E mi piace pensare che proprio don Peppino abbia pregato per loro. Don Peppino – prosegue don Patriciello – ha dato la vita per amore del suo popolo. Loro, invece, hanno avuto un odio profondissimo per questo popolo a cui appartenevano e a cui hanno fatto tanto tanto male. Allora mi auguro che Francesco Schiavone possa fare questo salto di qualità e passare da collaboratore di giustizia a un uomo veramente pentito davanti a Dio e davanti agli uomini. Se questo avvenisse, io come prete potrei cantare solamente il Te Deum”.

Il primo processo in cui potrebbe essere utilizzato – Il boss è sicuramente custode di importanti informazioni e sui legami con la politica e l’imprenditoria senza contare il controllo degli appalti pubblici e i rapporti con le aziende che sversato rifiuti pericolosi e tossici. Ovviamente anche gli omicidi irrisolti. Il suo esordio come pentito potrebbe arrivare in uno degli ultimi e più importanti processi sui colletti bianchi del clan, quello ai funzionari di Rete Ferroviaria Italiana per gli appalti a ditte ritenute colluse in cambio di soldi e regali; 35 arresti nel maggio del 2022 e 69 indagati in totale.

Schiavone non è imputato ma la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli potrebbe chiamarlo a testimoniare contro colui che viene considerato il suo storico prestanome, il 70enne Nicola Schiavone (i due non sono parenti), che figura tra gli imputati per associazione camorristica nel processo partito nel dicembre scorso al tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Prossima udienza il 3 aprile, quando ci si attendono novità importanti, come il deposito delle prime dichiarazioni di Sandokan, che già potrebbero rivelarsi decisive per incastrare Nicola Schiavone, uscito sempre indenne negli anni dalle tante accuse di collusione con il clan, e forse anche per individuare la “cassaforte” dei Casalesi.

L’imputato principale – Il 70enne Nicola Schiavone è amico storico di Sandokan, di cui ha battezzato il primogenito Nicola, ed è ritenuto dalla Dda un classico esponente di quell’area grigia di cui i Casalesi hanno sempre beneficiato. Legami mai assurti però, per i giudici, a forme di collusione camorristica: il 70enne non ha mai riportato condanne, anzi nel maxi-processo ai Casalesi noto come Spartacus fu assolto mentre il fratello Vincenzo condannato a due anni, ed è inoltre uscito indenne da altre accuse di associazione camorristica. Dal 1995 al 2007 sono state inoltre tutte rigettate dai tribunali le proposte di applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali avanzate nei suoi confronti per i rapporti con i Casalesi.

Gli stop al procedimento – Anche il procedimento per gli appalti Rfi, sebbene il quadro accusatorio della Dda di Napoli sia molto grave per Nicola Schiavone, ha conosciuto più battute d’arresto per la Procura che conferme dell’ipotesi d’accusa: in sede di indagini preliminari il tribunale del Riesame di Napoli e la Cassazione hanno escluso per Nicola Schiavone i gravi indizi in ordine al reato di associazione camorristica contestata dalla Dda, mentre lo scorso 15 giugno il giudice per l’udienza preliminare di Napoli Linda Comella ha prosciolto il 70enne Schiavone, insieme alla moglie, ai tre figli e ad altre tre persone, dall’accusa di riciclaggio e intestazione fittizia di beni, smontando così un primo fondamentale tassello dell’inchiesta anticamorra.
Per il gup tra il colletto bianco, definito consulente, e il capoclan, non vi sarebbe stato negli anni “alcun rapporto di natura economico-criminale, ma un legame determinato da ragioni di sola riconoscenza in virtù dell’aiuto che Nicola Schiavone e il fratello Vincenzo avevano ricevuto negli anni ’70, quando Francesco Schiavone passò loro le sue aziende”. Per altri 9 imputati che hanno scelto l’abbreviato, tra cui l’esponente apicale del clan Dante Apicella e alcuni funzionari di Rfi, si è arrivati nei mesi scorsi ad una condanna, mentre resta in sospeso il destino di Nicola Schiavone. Sandokan potrebbe ora cambiare radicalmente gli scenari del processo.