Musica

Da Carosone a Geolier, Pasquale Scialò condensa due secoli di ‘Storia della canzone napoletana’. Ne abbiamo parlato

Ritorna in libreria, in un prezioso cofanetto edito da Neri Pozza, La storia della canzone napoletana del musicologo e compositore, Pasquale Scialò. Due volumi, dal 1824 al 1931 e dal 1932 al 2003, indispensabili per gli appassionati della musica napoletana e non solo. La storia della musica della città cantante, come l’autore ama definire Napoli, contiene anche un’appassionata playlist creata dallo stesso Scialò. Un lavoro monumentale che da “Era di maggio” a “Tammurriata nera”, arriva al rap e alla trap contemporanee, passando per Carosone e Pino Daniele. Un lavoro prezioso che racconta la città e l’Italia attraverso la sua musica, che a Napoli, è il medium culturale per eccellenza attraverso il quale la città si autorappresenta. La canzone napoletana da sempre ha registrato gli umori, i dolori, i sogni e le storie dei vicoli del centro storico e in seguito quelli degli stradoni delle periferie urbane.

Il cofanetto sarà presentato il prossimo 16 marzo, alle ore 11, nella prestigiosa sala Scarlatti del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli.

Cosa pensa della polemica nata in seguito alla pubblicazione del testo, in napoletano, della canzone di Geolier?
Polemica sterile che ha procurato solo una grande promozione a costo zero a Geolier, ancora prima di salire sul palco di Sanremo. Le pare che ci voleva molto a ingaggiare qualcuno in grado di trascrivere il testo secondo una grafia storica? Per questo, risulta chiaro che non si è trattato di superficialità o di inadeguatezza, ma di una scelta, anche ai fini del marketing, per rinforzare l’immagine del cantante anche sul piano della scrittura. Certo, comprendo quanto tutto ciò suoni stonato e contradditorio in un momento in cui da più parti si considera il dialetto napoletano una lingua da studiare e diffondere nei suoi diversi aspetti, sostenuta da una legge regionale, con fondi, convegni, volumi, lezioni, tavole rotonde e la benedizione dell’accademia.
Ciononostante, bisogna fare i conti col fatto, orami da sempre risaputo, che ogni lingua si modifica nel tempo sotto spinte provenienti più dal “basso” che dal mondo colto, in quanto quest’ultimo appare più orientato a conservare le tradizioni. Come sostiene il linguista Raffaele Simone su “Il Foglio”: “Un errore, a forza di ripeterlo, diventerà una nuova norma”. Altro aspetto non trascurabile è che oggi l’apprendimento di una canzone non avviene attraverso la scrittura ma mediante oralità, attraverso l’ascolto. La musica manco si stampa più. Di fatto la fonte primaria del pop contemporaneo è quella sonora e, in alcuni casi, solo quella visiva legata ai clip.

Il cofanetto comprende anche un QRCode a fine di ogni volume per un totale di 200 ascolti della tradizione della canzone napoletana. Come avete scelto le canzoni da inserire?
La selezione dei componimenti è dettata da criteri di singolarità e fedeltà rispetto alle edizioni originali tra quelli disponibili sul servizio musicale digitale di Spotify. Per esempio, mentre per ‘A vucchella di Gabriele D’Annunzio e Francesco Paolo Tosti abbiamo scelto l’incisione d’epoca di Enrico Caruso per ‘E ccerase di Salvatore Di Giacomo e Vincenzo Valente quella contemporanea, ma fedele al testo originale, del Trio “Suonno d’ajere”. Ci si imbatte in Era de maggio, di Salvatore Di Giacomo e Pasquale Mario Costa, cantata da Battiato e Carmela di Salvatore Palomba e Sergio Bruni, eseguita dallo stesso autore. O ancora Palomma di Armando Gill cantata da Enzo Moscato e Quaccosa interpretata da Pino Daniele. Fino a brani come Intostreet con Liberato e Pe Secondigliano con le voci di Geolier e Nicola Siciliano.

La musica napoletana mai come oggi si sta (con)fondendo con i suoni del mondo, mantenendo la propria specificità spesso solo nell’uso del dialetto, c’è da preoccuparsi?
Assolutamente no, anzi bisogna essere fieri del fatto che la musica di area napoletana, come di buona parte di quella del Mediterraneo, si è sviluppata nel tempo grazie a continui apporti e scambi con altre culture. Naturalmente nel tempo questa modalità si intensifica ulteriormente, incalzata dalla diffusione delle musiche del mondo. Così se la canzonetta da cafè chantant ottocentesca o la stessa Bammenella ‘e copp’ ‘e Quartiere di Viviani risentono dell’influenza francese, dagli anni Trenta in poi si fa sempre più sentire quella d’oltreoceano e via via quella africana, indiana… Col tempo però anche la riconoscibilità del testo verbale subisce continue trasformazioni fino a produrre slang e mistilinguismi contemporanei, da Senese a Pino Daniele e molti altri. Ma anche in questi casi la presenza di termini meticciati conservano la sonorità e l’intonazione della lingua.

Come si mantiene viva la canzone napoletana?
Innanzitutto praticandola, suonandola, frequentandola anche in diversi momenti del nostro privato e non solo in manifestazioni pubbliche. Perché prima ancora di essere un bene emozionale dell’umanità la canzone è una cosa di famiglia, una matrice della nostra identità.
Poi studiandola con impegno perché ogni canzone storica nasconde un segreto, un gesto, un vissuto, una storia; tutti aspetti che vanno svelati scendendo in profondità del testo poetico-musicale, superando gli stereotipi e le convenzioni. E infine conservandola mettendo in rete su portali digitali, istituzioni culturali e biblioteche, magari anche accompagnata da percorsi narrativi e approfondimenti in modo che ne stimolino l’indagine e l’interazione degli utenti.

Quanto pesa la tradizione della canzone classica, e moderna, su chi oggi a Napoli fa musica?
Molto. A volte questa influenza può costituire uno stimolo per nuovi percorsi. Altre volte trasformarsi in una pesante zavorra. Dipende dal modo in cui i protagonisti riescono a mantenere un balance fra tradizione e mutamento. Mi colpisce ad esempio che un esponente di primo piano come Liberato riprenda il mito canoro della Sirena Partenope o chiami un suo brano Te voglio bene assaje, rievocando, sia pure solo nel titolo, una pietra miliare della storia della canzone. In generale credo che questa tradizione costituisca una chance, un valore aggiunto a supporto della creatività contemporanea. Un bene di famiglia a cui attingere, da usare, trasformare per nuove avventure.

Cosa la canzone classica può insegnare alle nuove generazioni?
Tante cose. In particolar modo mi soffermerei su due aspetti. Primo, il recupero e l’uso della melodia. E ciò per arginare l’incessante peso del groove ritmico che omologa la creatività riconducendola spesso a schemi e loop ripetitivi. La ripresa melodica, consentirebbe una maggiore identità e nello stesso tempo aiuterebbe i giovani cantanti a riappropriarsi di una buona intonazione, sempre più precaria per l’abuso dell’autotune. Secondo, la conoscenza dei versi dei nostri poeti aiuterebbe a recuperare da un lato un vocabolario oggi in disuso ma, principalmente, la loro lettura potrebbe consentire anche a riappropriarsi di una migliore articolazione e comprensione del testo verbale, ormai sempre meno riconoscibile nelle nuove generazioni.