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Da ‘rivoluzione’ il Green Deal diventa ‘ideologia’: il programma Ppe sconfessa 5 anni di von der Leyen. Migranti? Modello Uk-Rwanda

Il Ppe che sconfessa il Ppe, Ursula von der Leyen che tradisce se stessa e un Green Deal che da “piano ambizioso” e “rivoluzione” rischia di diventare “un’ideologia“. Meglio stravolgerlo in nome della convivenza con gli interessi economici. Il documento programmatico del Partito popolare Europeo, dal titolo La nostra Europa, una casa sicura e buona per le persone e presentato mercoledì al congresso del partito, a Bucarest, sembra scritto dalle formazioni ultranazionaliste di Identità e Democrazia o dal gruppo dei Conservatori europei. E invece esce dalle mani della famiglia del centrodestra moderato dell’Ue, la più grande e rappresentata di tutta la Plenaria. Così, accanto agli appunti sulla “sostenibilità economica” della transizione e i rinvii sulla diffusione delle auto elettriche, emerge anche una proposta radicale sul tema immigrazione: il modello al quale puntare è quello dell’esternalizzazione feroce tramite accordi con Paesi terzi, esattamente come l’accordo tra Gran Bretagna e Rwanda.

Spolpare il Green Deal
Sono passati quasi cinque anni dal discorso pronunciato dall’allora neoeletta presidente della Commissione Ue. Il contesto politico europeo, e tedesco, era ben diverso: i Verdi in Germania superavano il 20%, i Fridays for Future riempivano le piazze guidati da Greta Thunberg e, così, anche i partiti di centrodestra avevano bisogno di mostrare sensibilità per le sempre più pressanti questioni ambientali. Quale migliore occasione se non la nomina della nuova capa di Palazzo Berlaymont? È in questo contesto, ma non solo per questo, che nacque l’idea di una rivoluzione green sponsorizzata da Bruxelles che mirava a portare l’Unione ad avere emissioni zero entro il 2050.

Nel corso degli anni, però, quel piano, che ancora definiscono “un marchio di garanzia“, è stato rivisto più volte, picconato dalle pressioni delle varie lobby su Commissione e Parlamento e dalla conseguente avanzata dei partiti nazionalisti, bravi a intercettare il malumore generato dal cambiamento. Qualche esempio: la direttiva sulla qualità dell’aria, la revisione della direttiva sulle emissioni industriali che non ha incluso gli allevamenti di bovini, il regolamento sui pesticidi e la clausola sui terreni incolti. Il risultato è che proprio per recuperare parte di quei voti, anche gli ideatori di quel piano oggi lo offrono in sacrificio sull’altare del consenso. “Per raggiungere i nostri obiettivi ambiziosi – si legge nel documento che Ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare – dobbiamo far sì che le politiche sul clima vadano di pari passo con la nostra economia e società. Perché sappiamo che senza salvaguardia del clima la nostra economia non può essere competitiva a lungo termine, ma anche che senza un’economia competitiva non può esserci una protezione climatica sostenibile. Per noi, il Green Deal non è una nuova ideologia. Troveremo le migliori soluzioni solo se se sfrutteremo tutte le tecnologie a disposizione senza pregiudizi o ideologie”.

Un messaggio chiaro al mondo imprenditoriale, pilastro dell’elettorato Popolare soprattutto dove la Cdu-Csu rimane ancora molto forte, nella Baviera che è il cuore pulsante dell’economia tedesca ed europea, e anche agli agricoltori che nelle ultime settimane hanno manifestato il proprio malcontento nelle piazze di mezza Europa. Lo si esplicita anche nel documento programmatico: “Soprattutto in agricoltura e pesca, gli obiettivi ambiziosi dovrebbero essere raggiunti con innovazioni tecnologiche, non con divieti“.

La linea cambia anche nel settore dell’automotive, dove l’attenzione si sposta dalla transizione all’elettrico verso una maggior tutela delle aziende europee, preoccupate dall’esplosione del mercato cinese delle auto elettriche e delle batterie, e dei consumatori che non hanno intenzione di cambiare i propri mezzi a motore termico. Così nel documento si legge che “saranno gli ingegneri e non i politici, insieme ai mercati, a decidere quali siano le migliori tecnologie per raggiungere la neutralità carbonica”.

Per i migranti si guarda al modello Uk-Rwanda
Che l’Europa avesse ormai sposato la strategia dell’esternalizzazione della questione migratoria non è certo una novità. D’accordo sono non solo le formazioni di destra, come dimostrano gli “aiutiamoli a casa loro” di salviniana memoria o i più recenti accordi come quello siglato tra Italia e Albania, ma anche quelle centriste e di sinistra, come mostrano gli accordi, più o meno efficaci, con governi ed entità in diversi Paesi dell’Africa del Nord e subsahariana. Senza dimenticare quello con la Turchia sui rifugiati siriani. Ma la proposta contenuta nel documento del Ppe va oltre e guarda a un sistema controverso, fortemente criticato anche da alcuni membri del governo che lo ha proposto e bocciato in passato dalla Cedu e dall’Alta Corte del Regno Unito: quello tra Gran Bretagna e Rwanda.

“È necessario un cambiamento fondamentale del diritto europeo in materia d’asilo – si legge nel documento – È necessario creare una lista di Paesi terzi e sicuri. Chiunque chieda asilo in Unione europea potrebbe anche essere trasferito in un Paese terzo e sicuro dove può essere sottoposto a procedure d’asilo”. Un po’ come fatto dal governo britannico, l’idea è quindi di individuare Paesi disposti a prendersi la gestione dei richiedenti asilo in Europa per svolgere lì tutte le pratiche. Il tutto in cambio, evidentemente, di accordi economici vantaggiosi.

Dietro alla strategia della “fortezza Europa” non si nasconde solo l’incapacità conclamata dell’Ue di riformare il Regolamento di Dublino, le difficoltà dei Paesi di primo ingresso di gestire arrivi numerosi e il rifiuto degli altri membri di accogliere una parte delle persone sbarcate. Nel testo se ne fa anche una questione di “identità europea” da preservare, nella migliore tradizione degli ultranazionalismi sempre più influenti nelle istituzioni di Bruxelles: “L’Ue è diversa e sfumata, ma esiste un patrimonio culturale giudaico-cristiano condiviso. Lo stile di vita europeo va protetto preservando i nostri valori cristiani e i nostri principi fondamentali”. È anche per questo, forse, che l’atteggiamento riguardo ai migranti provenienti dall’Ucraina è diverso rispetto a quello tenuto con chi viene dall’Africa: “Vogliamo evitare il ritorno dei rifugiati in Ucraina in questo momento”, si specifica nel testo.

La svolta a destra
Così, nell’ormai annosa lotta interna tra la corrente più moderata e liberale e quella conservatrice, a spuntarla è la seconda. La linea del presidente del partito, Manfred Weber, emerge su quella della candidata von der Leyen. Sarà lei, però, a doverci mettere la faccia, perché è lei la figura indicata per ricoprire, di nuovo, la più importante carica dell’Unione europea. A questo punto, però, non è detto che sia lei a salire di nuovo a Palazzo Berlaymont. È tutta da valutare la sua disponibilità a cancellare con un tratto di penna tutto ciò per cui si è spesa all’inizio del suo mandato, soprattutto in tema ambientale, salvo poi smontarlo pezzo per pezzo nel corso della legislatura. Rimane l’incognita anche sulla sua volontà di favorire, come nelle speranze di Weber e del leader di Forza Italia, Antonio Tajani, un’alleanza che non guardi più ai Socialisti europei, ma che vada dai liberali di Renew Europe e comprenda i Conservatori di Giorgia Meloni, il Fidesz di Viktor Orbán, pronto a entrare in Ecr dopo le elezioni, fino alle anime meno ‘problematiche’ di Identità e Democrazia come la Lega e il Rassemblement National di Marine Le Pen. Per lei, quindi, sembra tornare di moda l’ipotesi di un approdo alla Nato, a ottobre, succedendo al segretario generale Jens Stoltenberg, dato che in queste ore il governo ungherese ha annunciato di non essere disposto ad accettare la nomina dell’olandese Mark Rutte per la poltrona più importante dell’Alleanza.

Per il momento, ogni lettura di questo tipo rimane però nel campo delle ipotesi. Le questioni da risolvere rimangono molte: come convincere i macroniani a entrare in un’alleanza di destra dove è presente anche la sua acerrima nemica a livello nazionale, Marine Le Pen? Cosa dare in cambio al nuovo governo liberale polacco di Donald Tusk per sopportare la presenza dei nazionalisti del Pis? E come far digerire al partito il ritorno da alleato di Orbán? Domande che devono trovare una risposta entro giugno, quando gli europei saranno chiamati a votare. Ma il nuovo programma del partito una cosa la dice già: il Ppe guarda sempre più a destra.

Twitter: @GianniRosini