Società

Gli obiettori di coscienza ucraini, russi e israeliani dicono no alla banalità del male della guerra

Sul Fatto Quotidiano del 6 gennaio, Cosimo Caridi (“Altri 500mila al fronte”. In migliaia tentano la fuga) ha raccontato i tentativi di fuga in massa dei giovani ucraini di fronte alla necessità del governo di inviare al fronte altri 500mila soldati, abbassando l’età della coscrizione ai 25 anni e obbligando all’addestramento alla guerra tutti i maschi che abbiano compiuto 18 anni, che non possono comunque lasciare il paese fino ai 60. La polizia che ferma i giovani alla frontiera con la Polonia e li costringe all’arruolamento sembra far crollare, dopo due anni di guerra alimentata dalle armi occidentali, sia la retorica della “resistenza di popolo” all’invasore russo sia quella della “controffensiva fino alla vittoria” prodotte dal governo ucraino e rilanciate acriticamente anche dalla maggior parte dei media italiani.

Non a caso alla fine del 2023 anche l’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza, la War Resisters’ International (di cui è sezione italiana il Movimento Nonviolento) e l’International Followship of Reconciliation (di cui è sezione italiana il Mir) hanno espresso congiuntamente “profondo disappunto e grave preoccupazione per le continue vessazioni nei confronti degli attivisti pacifisti e degli obiettori di coscienza, compresi i procedimenti giudiziari arbitrari e le sentenze ingiuste” in Ucraina. Come, del resto, avevano già fatto anche per la messa fuorilegge del movimento degli obiettori di coscienza in Russia.

L’obiezione di coscienza e i tentativi di diserzione sono importanti segnali che anche la società civile ucraina manifesta stanchezza e insofferenza per la continuazione di questa guerra, nonostante la massiccia propaganda bellica messa in campo da governo e media, insieme ai pervasivi dispositivi di “disimpegno morale” dispiegati in questa come tutte le guerre – e diffusi, ovviamente, anche in Russia, oltre che in Israele e tra le milizie di Hamas – per convincere pacifici cittadini a trasformarsi in combattenti. Questi dispositivi sono stati ampiamente studiati dallo psicologo sociale statunitense Albert Bandura (Disimpegno morale, 2017) anche per spiegare come avviene la riformulazione etica dell’omicidio, grazie alla quale i soldati possono sentirsi liberi di uccidere superando la censura morale che vieta la violenza. E’ utile riepilogarli qui di seguito.

1) Giustificazioni morali, sociali ed economiche che nobilitano la violenza con scopi onorevoli e fini meritori (è il classico principio del fine che giustifica i mezzi).
2) Linguaggio eufemistico per mascherare la violenza, non nominandola, depotenziandone la carica di colpevolezza (per esempio, definire le vittime civili “effetti collaterali”).
3) Confronto vantaggioso volto all’autoassoluzione attraverso la comparazione della propria violenza con quella sempre più efferata e intenzionale attribuita al nemico.
4) Spostamento della responsabilità su qualcun altro a cui si è obbedito, minimizzando il proprio ruolo (è la linea difensiva dei gerarchi nazisti a Norimberga e di Eichmann a Gerusalemme).
5) Diffusione e diluizione della responsabilità su più soggetti agenti (“lo hanno fatto tutti”): è lo strumento di discolpa nella violenza di branco.
6) Minimizzare e trascurare gli effetti dannosi delle proprie azioni: se i danni procurati non sono degni di nota svanisce anche il senso di colpa per le conseguenze.
7) Deumanizzazione del nemico, grazie alla quale si annullano gli scrupoli a compiere violenza negando l’umanità di chi la subisce.
8) Attribuzione della colpa: nell’escalation del conflitto si seleziona un atto ostile dell’altro e lo si considera come provocazione iniziale, scaricando su di esso la responsabilità delle conseguenze.

E’ grazie alla messa in campo di questi dispositivi culturali, con modalità sempre più sofisticate fornite dallo sviluppo dei media, che nel corso dei secoli, aggiunge Bandura, “persone ordinarie e perbene hanno compiuto molti atti distruttivi in nome di ideologie, principi religiosi, dottrine sociopolitiche e imperativi nazionalistici”, attraverso l’interiorizzazione del convincimento che in guerra uccidere il proprio simile non è omicidio ma atto di eroismo.

E’ proprio questo il meccanismo che rifiutano gli obiettori di coscienza al servizio militare, rigettando il doppio standard etico tra violenza privata e violenza pubblica. Come Tal Mitnick, il diciottenne refusenik israeliano in carcere dal 26 dicembre scorso per le seguenti ragioni: “Credo che il massacro non possa risolvere un massacro. L’attacco criminale contro Gaza non riparerà il terribile massacro compiuto da Hamas. La violenza non risolverà la violenza. Ed è per questo che rifiuto”. Anch’egli sostenuto dalla Campagna italiana di Obiezione alla guerra, a cura del Movimento Nonviolento. Tal e gli altri, a tutte le latitudini, sono giovani che rifiutano le sirene del disimpegno morale che inducono a compiere la banalità del male della guerra, e contemporaneamente assumono su di sé la responsabilità del bene della pace, pagandone personalmente le conseguenze.