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I big di web e software “esportano” utili nei paradisi fiscali. In Italia solo l’1,7% delle imposte – lo studio di Mediobanca

Nel 2022 le controllate italiane dei colossi del settore Web e Software, i cosiddetti “unicorni” hanno versato all’Agenzia delle Entrate tasse per appena 162 milioni, pari a un’aliquota fiscale del 28,3% sugli utili dichiarati. Ma a fronte di un fatturato che su base nazionale lo scorso anno ha raggiunto i 9,3 miliardi, le imposte pagate in Italia sono state dunque pari ad appena l’1,74%. Nel dettaglio, le 10 del gruppo Amazon con sede in Italia hanno pagato solo 26,7 milioni di imposte su un fatturato di 3,22 miliardi, Ibm, 58,4 milioni su 1,79 miliardi di ricavi, Microsoft 31,6 milioni su 1,22 miliardi di giro d’affari, Alphabet – Google 11,7 milioni su 1,11 miliardi circa, Sap 12,5 milioni su 644.

Il dato paradossale emerge dall’ultima analisi dell’Area Studi di Mediobanca (Asm) dedicata all’andamento dei conti tra il 2019 e il 2023 delle 25 maggiori società internazionali dei settori software e web. Di questi colossi, 11 hanno sede negli Stati Uniti (tra questi Amazon, Alphabet – Google, Microsoft, Meta – Facebook, Ibm, Oracle, Uber) dieci in Cina (JD, Alibaba), due in Germania (Sap e Otto) e una ciascuno in Giappone (Rakuten) e Corea del Sud (Coupang): l’anno scorso hanno realizzato un fatturato aggregato su base mondiale di 1.792 miliardi, pari al 90% del Pil italiano, in crescita del 9,6% rispetto al 2021, anche se l’incremento dei ricavi su base annua è stato il più basso del quadriennio esaminato.

Dunque, l’aggregato dei ricavi delle controllate italiane ha un peso minimo rispetto al totale dei ricavi mondiali delle WebSoft, pari a poco più dello 0,5% del loro fatturato globale. Le filiali italiane di questi giganti comunque danno lavoro a oltre 26.400 addetti. Rispetto al 2019 i loro lavoratori sono aumentati di oltre 11 mila unità, per lo più assunti dal Gruppo Amazon, che vanta il maggior numero di dipendenti in Italia (16.250 nel 2022). La presenza in Italia di questi colossi si basa attraverso filiali dislocate prevalentemente nel Nord Italia, la maggior parte delle quali collocate a Milano e provincia. Molteplici sono i modelli di business impiegati dalle società WebSoft, che si differenziano tra quelle che si avvalgono esclusivamente dei canali online per lo sviluppo della propria attività e la vendita dei propri servizi (tipicamente pubblicitari, come Meta), quelle che sviluppano delle piattaforme di scambio e incontro tra gli utenti o quelle ibride, presenti sul web e al tempo stesso sul territorio, ad esempio tramite magazzini che impiegano personale dipendente locale, come Amazon.

Ma il paradosso fiscale degli unicorni non è destinato a essere risolto nel breve periodo, come scrive l’Area studi di Mediobanca, anche se si considerasse la Digital Service Tax. La Dst è un’imposta pari al 3% dei ricavi generati nel periodo d’imposta derivanti dalla fornitura di servizi digitali, applicata alle imprese che, individualmente o a livello di gruppo, hanno realizzato un ammontare di ricavi pari o superiori a 750 milioni e ricavi derivanti da servizi digitali realizzati nello Stato italiano non inferiori a 5,5 milioni. Pure con l’applicazione della Dst, il totale delle imposte pagate nel 2022 arriverebbe appena a 206 milioni, 43 in più di quelli attuali, pari a un tax rate del 36% degli utili. E pure se dal prossimo primo gennaio anche in Italia dovrebbe essere applicata la Global minimum tax (l’imposta del 15% relativa alle multinazionali) varata di recente in sede Ocse, la Dst rimarrà operativa sino all’entrata in vigore del Pillar One della global minimum tax, prevista per il 2025.

Com’è possibile questo? Attraverso il dumping fiscale che, con lunghe catene societarie, consente di “esportare” gli utili dai Paesi dove sono prodotti, e magari sarebbero pesantemente tassati, a paradisi fiscali a tassazione bassa o quasi nulla. Secondo quanto scrivono gli esperti dell’Area studi di Mediobanca, “nel 2022 circa un terzo dell’utile ante imposte delle maggiori WebSoft mondiali è tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con conseguente risparmio fiscale di 13,6 miliardi nel 2022 e di 50,7 cumulati nei quattro anni 2019-2022. L’aliquota media risulta pari al 15,1% nel 2022, inferiore a quella teorica del 21,9%. Nel periodo 2019-2022 la tassazione in Paesi a fiscalità agevolata ha determinato per Tencent, Microsoft e Alphabet un risparmio fiscale rispettivamente di 19,2, 12,3 e 7,1 miliardi”.

L’analisi dell’Area studi di Mediobanca mette in risalto anche alcune tendenze globali. A crescere di più, a livello aggregato, sono le società di e-commerce come Amazon, Jd, Alibaba, mentre la sfida è sempre più solo tra imprese statunitensi e cinesi, con le società Usa che nel 2022 rispetto al 2019 hanno guadagnato l’1% di quota di mercato mondiale (dal 69 al 70%) a discapito di Europa e Asia, mentre la quota cinese è rimasta stabile al 26% del fatturato globale del settore. Il giro d’affari dei 25 colossi lo scorso anno era salito del 64,4% rispetto al 2019, la loro forza lavoro complessiva del 62,9%. Nel 2022 le 25 società più grandi del WebSoft impiegavano quasi 4 milioni di persone nel mondo, un milione e mezzi in più del 2019, di cui la sola Amazon con un aumento di 743 mila dipendenti. La società di Jeff Bezos, leader indiscusso in termini di occupazione tra le WebSoft, nel periodo 2019-2022 ha quasi raddoppiato la propria forza lavoro: l’incremento risente principalmente dello sforzo compiuto durante la pandemia che ha portato ad aumentare le assunzioni. “L’incredibile espansione dell’organico, spinta da un’ondata di assunzioni durante i lockdown dovuti alla pandemia, mostra ora un ridimensionamento diffuso”, scrivono però gli analisi di Asm: questa riduzione è trainata principalmente dalle società di e-commerce come Alibaba (che nel 2022 ha tagliato 19.700 dipendenti rispetto al 2021) e Amazon che mostra un calo del 4,2% della propria forza lavoro (67 mila dipendenti in meno). Il tutto nonostante incredibili vantaggi di costi nel settore dell’e-commerce rispetto alla grande distribuzione organizzata: ogni 10 milioni di euro di fatturato, “Amazon e JD.com, i principali rivenditori digitali al mondo, impiegano 32 persone, contro le 42 delle multinazionali della Gdo alimentare. Alibaba, che è un marketplace, impiega 20 persone”, scrive l’Area studi di Mediobanca.

Quanto alla dimensione in Borsa, dopo un 2022 in netta flessione, che aveva riportato le 25 maggiori società WebSoft indietro di due anni per capitalizzazione, il 2023 ha riportato la crescita delle loro azioni sui listini azionari. Al 30 novembre scorso infatti i colossi del WebSoft raggiungevano collettivamente una capitalizzazione di Borsa 8.767 miliardi di euro, in crescita del 47,5% rispetto alla fine del 2022. Cosicché, mentre a fine 2022 la capitalizzazione delle 25 maggiori imprese del settore “pesava” per il 6,9% del valore complessivo delle Borse mondiali, l’incidenza era salita al 9,5% a fine novembre 2023. Un valore pari a oltre dieci volte quello del listino dell’intera Borsa italiana. Al 30 novembre il podio di Borsa è occupato da Microsoft (le cui azioni valevano 2.581 miliardi di euro), seguita da Alphabet (1.528 miliardi) e da Amazon (1.384). Ma dal primo gennaio al 30 novembre le azioni che hanno segnato i rialzi maggiori sono state quelle di Meta (+165,9%) e di Uber (+123,0%).