Cultura

“Non conosco una donna che non abbia subito molestie”: Cinzia Spanò porta in scena la sentenza rivoluzionaria sulla prostitute minorenni dei Parioli

Nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre, l’autrice e attrice Cinzia Spanò - tra le fondatrici dell’associazione Amleta che si occupa della violenza sulle attrici - torna in scena con il suo spettacolo “Tutto quello che volevo”

Grazie a Virginia Woolf, a Emily Dickinson, a Natalia Ginzburg. Grazie a Sibilla Aleramo, a Marguerite Yourcenar e a tutte le scrittrici che hanno affrontato il tema della dignità e della consapevolezza femminili. Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre, l’autrice e attrice Cinzia Spanò torna con il suo spettacolo “Tutto quello che volevo”. Un one woman show, vincitore del Premio Milano Donna 2019, che ricostruisce il lavoro della giudice Paola Di Nicola e della sua coraggiosa sentenza sul caso dei Parioli: non soldi ma acquisto di libri e dvd come risarcimento economico del danno subito. Vittime, nel 2013, due ragazzine di 14 e 15 anni: studentesse di uno dei licei migliori della capitale che si prostituivano dopo la scuola in un appartamento di viale Parioli con clienti della “Roma-bene”.

Oltre alla condanna di reclusione l’imputato, in uno dei processi seguiti da Di Nicola, ha dovuto acquistare libri e film da dare alla vittima sulla storia e sul pensiero delle donne: “L’unico strumento capace di restituire dignità e libertà, ossia la conoscenza”, secondo le parole della giudice. Cinzia Spanò nel suo spettacolo, che proprio il 25 novembre apre al teatro Bonci di Cesena una tournée che tocca diverse piazze italiane, ricostruisce la genesi di questo lavoro giudiziario. Nella città romagnola, dopo la rappresentazione, un talk con l’autrice e la giudice Paola Di Nicola sarà proprio lo spunto per riflettere sulla necessità di porre in primo piano il valore delle donne in ogni ambito della società.

Cinzia Spanò, come ha lavorato alla creazione del suo spettacolo?
La drammaturgia di “Tutto quello che volevo” nasce dallo studio della sentenza e dall’incontro con la giudice. È la ricostruzione non solo del caso che fece tanto scalpore ma anche del suo lavoro per arrivare a una sentenza rivoluzionaria che ha fatto il giro del mondo. Le due ragazzine si sono imbattute in un annuncio sul web che prometteva lauti guadagni. Poi sono scivolate in una rete di prostituzione minorile. Una volta avviati i processi per clienti e sfruttatori la giudice si è chiesta come potesse il risarcimento del danno previsto dalla legge essere individuato in una somma in denaro. Quella modalità avrebbe rafforzato la relazione stabilita dall’imputato con la vittima, l’idea che tutto sia monetizzabile, anche la dignità. E ha deciso diversamente.

Nello spettacolo ricorrono però anche altri elementi…
Si affronta anche il tema dello sciacallaggio mediatico. L’attenzione dei media si è concentrata più sulle vittime che sugli sfruttatori. Le ragazzine sono state chiamate ‘baby squillo’. Questo nomignolo e la modalità con cui è stata raccontata la storia è parte del problema. Si trattava di minorenni: un conto è una scelta adulta consapevole un altro è lo sfruttamento di persone senza strumenti per decidere liberamente. La narrazione mediatica ha inquinato la lettura collettiva della vicenda e ha creato il meccanismo della vittimizzazione secondaria: la vittima non viene percepita come tale e in questo modo diventa vittima un’altra volta.

Porta in giro questo monologo dal 2018: perché continua a fare sold out?
Perché il punto di vista narrato, quello della giudice, s’inserisce in un percorso allargato a quello di tutte le donne. La sua sentenza individua nella conoscenza lo strumento che pone al vertice la dignità della donna come conquista collettiva. Simone De Beauvoir sosteneva che donne non si nasce: si diventa. Donando la storia di tutte le donne alla vittima come risarcimento alla sua dignità compromessa dalla mercificazione, si costruisce quel percorso di consapevolezza di cui parla lo spettacolo.

Il suo monologo porta in scena anche documenti di indagine?
Nello spettacolo ci sono anche ricostruzioni attoriali, proiezioni e audio basati sulle intercettazioni fra i clienti e le minorenni. Emerge, per esempio, la proposta del primo appuntamento a una delle ragazze. E l’invito della madre ad andare a scuola anche dovendo ‘lavorare’ nel pomeriggio. Oppure l’indicazione a recuperare i soldi persi quando la ragazza dice che non sta bene.

In questi giorni l’opinione pubblica è sconvolta dall’omicidio di Giulia Cecchettin. Cosa pensa del dibattito in corso a livello politico?
Chi pensa che un femminicidio sia da strumentalizzare politicamente deve vergognarsi. La politica, che sia di destra o di sinistra, dovrebbe mettersi in ascolto e assumersi delle responsabilità. Realizzare nelle scuole corsi sull’affettività, come ha proposto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia. Per combattere concretamente la cultura patriarcale di cui il femminicidio e lo sfruttamento sono le parti più evidenti e drammatiche, non serve strumentalizzare. Ci vogliono investimenti seri per scardinare una cultura in cui si ride ancora di fronte a battute sessiste.

Perché ha cominciato a occuparsi di questo tema?
Perché è importante. Inoltre tutte noi subiamo molestie nella nostra vita. Non conosco nessuna che non ne abbia subite. Dopo tanti anni di lavoro come attrice pura ho voluto dedicarmi a questo sul palcoscenico e fuori dal palcoscenico. E con altre venti colleghe ho fondato l’associazione Amleta che si occupa della violenza sulle attrici. Abbiamo evidenziato come il sessismo serpeggi anche all’interno del mondo dello spettacolo: in tre anni sono stati 223 i casi di violenza e abuso segnalati alla nostra associazione. Non è mai una questione singola ma di appartenenza di genere.

Ora sta lavorando al prossimo spettacolo: la stand up “Esagerate!”. Di cosa parla?
Scritto con Paola Giglio e con Valeria Perdonò come aiuto regia, è un’esortazione più che un aggettivo. Affronta, in maniera più leggera ma sulla base di dati e studi, il problema della disparità e discriminazione di genere. Nello spettacolo, per esempio, parlo del pregiudizio di genialità che introiettiamo sin da piccole leggendo i libri di storia. Filosofi e grandi condottieri sono quasi tutti maschi. A noi è stato impedito per secoli l’accesso a studi e professioni. La nostra è una stand up che prende le mosse dagli studi più recenti di scienziate ed esperte sulla questione.

Ai suoi spettacoli in teatro vengono spesso le scuole. Qual è la domanda più interessante che ha ricevuto dagli studenti?
I ragazzi colgono al volo ciò che invece gli adulti non comprendono. Una volta uno studente alza la mano e interviene così sulla sentenza della giudice Di Nicola: ‘Nonostante sembri simbolica non lo è nella realtà’. Ho risposto che aveva ragione. L’intento della giudice era di dare alla ragazza uno strumento concreto di emancipazione e di autodeterminazione. Non un simbolo. I ragazzi di oggi sono più ricettivi di noi, hanno meno pregiudizi. Ma dobbiamo intervenire urgentemente. Assecondare la loro intelligenza affrontando temi come violenza di genere e affettività. Lavoriamo con loro sulla cultura del rispetto.