Diritti

Transgender, 321 persone uccise nel mondo in un anno. Italia in testa in Europa per numero di crimini, Arcigay: “Servono nuove norme”

Naomi Cabral e Marta Torres. Si chiamano così le due persone trans assassinate in Italia, entrambe a Roma, che, insieme a un’altra donna della quale non è stato possibile identificare l’identità, vanno a comporre il drammatico elenco delle vittime transgender uccise nel mondo in un anno, da ottobre 2022 a novembre 2023. In tutto, sono state 321. In Europa, l’Italia è ancora in vetta tra i paesi in cui si registrano più crimini transfobici.

I numeri e i nomi sono stati diffusi dall’organizzazione internazionale Tgeu, che dal 2005 lavora per tutelare e rafforzare i diritti e il benessere delle persone trans nel mondo. In occasione del TDor, il Transgender day of remembrance, ha reso noti i dati del suo monitoraggio, secondo i quali sono Turchia e Italia i due Paesi dell’area europea in cui si registrano ogni anno più omicidi di persone trans. Inoltre, il 45% delle donne trans assassinate in Europa era migrante o rifugiata. “Il numero – si legge sul sito Tgeu – è molto vicino ai 327 casi segnalati l’anno precedente, dimostrando che la violenza contro le persone trans rimane a un livello costantemente elevato. Con 236 casi, l’America Latina e i Caraibi hanno ancora una volta il maggior numero di omicidi tra tutte le regioni. Quest’anno sono stati segnalati per la prima volta omicidi in Armenia, Belgio e Slovacchia”.

“L’allarme continua a essere alto” commenta Christian Cristalli, responsabile politiche trans nella segreteria nazionale di Arcigay. “Già nel 2014 un’importante ricerca condotta dal team di Alessandra Fisher, endocrinologa presso l’azienda ospedaliera universitaria Careggi di Firenze, ci aveva consegnato un dato clamoroso: in Italia il 43% degli studenti e studentesse transgender dai 12 ai 18 anni abbandonano la scuola prima del tempo. Questi numeri sono i presupposti sui quali si fondano le terribili cronache degli ultimi anni: voglio ricordare il suicidio di Chiara, ragazza trans napoletana di appena 19 anni, e quello di Sasha, catanese di soli 15 anni, entrambe perseguitate dai bulli a scuola. L’esclusione lavorativa ci riporta alla storia di Cloe Bianco, insegnante transgender demansionata progressivamente e allontanata dagli studenti, e che alla fine si è tragicamente tolta la vita. E voglio ricordare anche Bruna, donna trans venuta dal Brasile, brutalmente pestata dai vigili a Milano e stigmatizzata con accuse infamanti, poi rivelatesi tutte false. Questi episodi rendono evidente che il fenomeno transfobia non è circoscritto alle sex worker, come vorrebbero molte semplificazioni, e che soprattutto la violenza viene agita da chiunque: studenti, colleghi, famiglie, forze dell’ordine”.

La violenza è solo una parte di un fenomeno che le persone trans devono affrontare ogni giorno. “Voglio citarne due molto semplici, ma dall’impatto enorme: dal 2015, cioè da quando le Alte Corti hanno rimosso l’obbligo dell’intervento chirurgico dall’iter per la riassegnazione di genere, le aziende sanitarie continuano a non contemplare i nostri corpi non convenzionali. Ed ecco che per esempio gli uomini trans che non si sono sottoposti all’intervento risultano regolarmente esclusi dai programmi di medicina preventiva oncologica destinati alle persone con utero (pap test). Test di screening che arrivano, invece, a ragazze transgender con documento al femminile che avrebbero bisogno di altra prevenzione. Un bug burocratico che nessuno affronta e che nega un diritto fondamentale a molte persone ad oggi ancora invisibili in Italia, cosiddetti pazienti imprevisti. Altro esempio: nonostante la obsoleta legge in vigore in Italia, la 164 del 1982, non citi nell’iter per la riassegnazione di genere in alcun modo la diagnosi ma citi solo la necessità di una ‘consulenza in materia psicosessuale’, la prassi consolidata dai tribunali è la pretesa di una diagnosi psichiatrica alle persone trans, contrariamente a quanto avviene in Europa, dove si seguono le linee guida WPATH come suggerito dall’Oms ormai dal 2018. Quella diagnosi è un documento spesso costoso e inderogabile che resterà come uno stigma nel futuro di quella persona, precludendole persino l’accesso ad alcune professioni. Ecco perché continuiamo a rivendicare innanzitutto la depatologizzazione dei nostri percorsi e delle nostre identità trans, uno scatto culturale che molti Paesi hanno già fatto e che è il primo passo per abbattere lo stigma che opprime la comunità Trans. E vogliamo anche, dopo 41 anni, una nuova legge per il diritto all’autodeterminazione di genere e all’integrità dei corpi delle persone intersex”, conclude Cristalli.