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Per una lettura postpolitica della vittoria di Milei: così El Loco ride sulle rovine argentine

El Loco ha sbancato. Javier Milei incoronato presidente a gran maggioranza. La massa ha bocciato Massa, accantonando dopo vent’anni la lunga e declinante parabola del kirchnerismo. Anche se forse solo per il momento, perché in Argentina il peronismo è una forma antropologica di base e vero e proprio revenant politico capace ciclicamente di ripresentarsi sotto nuova veste.

Solo qualche giorno fa un articolo de La Nación, il principale quotidiano argentino, pubblicava una sfilza di analisi di cosiddetti esperti che – tutti, nessuno escluso – bocciavano la performance di Milei nell’ultimo dibattito prima del ballottaggio. Oggi il rendiconto dei messaggi ex-post, sullo stesso giornale, va dal vivo apprezzamento di Patricia Bullrich (“Felicitaciones Javier Milei por tu contundente e histórico triunfo”), all’offerta di collaborazionismo dell’ex-Presidente Macri (“El nuevo gobierno de Milei necesitará apoyo, confianza y paciencia de todos nosotros”), a – ed è il minimo ‘critico’ – un untuoso attendismo. Il discorso politico assorbe ogni cosa: quella che fino a ieri era vista come un’anomalia da debellare, ora che i presunti – perché inesistenti – anticorpi democratici hanno fallito, va al più presto integrata nell’organismo. Bisogna normalizzare, anzitutto per non rimaner fuori dai (nuovi) giochi e dalle relative spartizioni.

Due considerazioni. La prima sul tipo umano-Milei. Si è molto ironizzato sulla sua figura di Joker della politica argentina: l’anarco-liberista favorevole alla compravendita degli organi che vuole abolire la Banca Centrale, il “profesor de sexo tántrico” che chiede consigli politici tramite un medium al suo cane morto e fa comizi agitando in aria una motosega; dunque rottamazione come deforestamento, accentuazione motorizzata in senso Latin American Psycho dei vari Trump, Bolsonaro & Co., il cui comune denominatore è perfettamente compendiato nello slogan “¡Que se vayan todos!” che celebra oggi il suo trionfale V-Day porteño.

Sarebbe fin troppo facile liquidare tutto ciò con la classica levata di scudi accompagnata da un coro di sdegnati “oddio signora mia”, mentre invece va segnalato che la catastrofe di vecchie socialdemocrazie e derivati più o meno progressisti o liberal va sostanzialmente ricondotta alla loro accuratissima incapacità di promuovere anche solo un minimo di politiche redistributive. Da quarant’anni la ‘gente’ vota le cosiddette ‘sinistre’ e da quarant’anni sta sempre peggio: vede erose le proprie tutele e compresse le proprie possibilità economiche, mentre – constatazione semplicissima ma non perciò meno oggettiva – chi ha troppo ha sempre di più, deprimendo i consumi che sono il primo e più importante volano della crescita. Così in tutto il globo aumentano i working poor, che sono appunto sintomo palese del fatto che nessun governo ha saputo concepire e implementare strategie economico-politiche che ripensino radicalmente il funzionamento della società considerato il fatto che ricchezza e benessere non sono più generati dal lavoro inteso in senso classico.

Alla luce della rivoluzione telematica andrebbe proposta una revisione radicale dei concetti di proprietà e profitto, ma ne parlano – per la verità da decenni – solo alcuni visionari inascoltati, mentre il mondo politico – e anche, va detto, larga parte di quello giornalistico – è rimasto arroccato su posizioni regressive e veteronovecentesche.

La seconda questione che vorrei toccare è strettamente connessa alla prima e riguarda il discredito generalizzato della classe politica che ha guidato l’Argentina dopo la Dittatura (fatta forse eccezione per Raúl Alfonsín). Si è trattato di una classe politica corrotta e inefficiente? Certamente sì, ma non è soltanto questo il punto. Perché di per sé non basta a spiegare l’apparente masochismo per cui il “quarto Stato” continua a darsi la zappa sui piedi, affidandosi a magliari i quali non fanno altro che accelerare il processo di lumpenizzazione inverso a una moderna emancipazione di classe.

Che cosa è successo, allora? L’esplosiva viralità di Milei ha a che vedere col modo in cui la forma istituzionale della politica è stata travolta dall’idea completamente soggettiva di libertà, una libertà non più ostacolata o mediata da nulla. Milei è il rispecchiamento non istituzionale di una forma incondizionata di affermazione che, come tale, non può che essere distruttiva. Scrive Byung-chul Han in Psicopolitica sul potere politico che radicalizza questo nuovo concetto di libertà: “Non ci impone alcun silenzio. Piuttosto, ci invita di continuo a comunicare, a condividere, a partecipare, a esprimere le nostre opinioni, i nostri bisogni, desideri o preferenze, e a raccontare la nostra vita. Questo potere intelligente è, per cosí dire, piú potente del potere repressivo […] La crisi della libertà nella società contemporanea consiste nel doversi confrontare con una tecnica di potere che non nega o reprime la libertà, ma la sfrutta”. Canalizzare i proventi di questa libertà-feticcio disintermediata, impensabile senza lo ‘sfogatoio’ universale dei social media, è il ruolo assolto egregiamente da Milei.

Tutto folklore, è vero, in un’epoca in cui la democrazia, in conclamato stato comatoso e in attesa di essere definitivamente smantellata, continua a vigere come sistema puramente formalistico. Ma come in ogni carnevalesco rito d’apparenze, perché la macchina scenica funzioni qualcuno dev’essere sacrificato. Il riso felino del Loco rischia di essere quello, mortifero e scontornato dal corpo, di uno Stregatto della Postpolitica. Una dentatura che digrigna sadicamente sul nulla, quando tutt’intorno è solo rovina.