Economia

Davvero le scelte economiche sono “neutrali” e inevitabili? No, è un luogo comune. Il libro di Clara Mattei spiega che in realtà è tutta politica

L’economia è politica (192 pp, 16,50 euro, ed Fuoriscena) è il nuovo libro – il primo in italiano – di Clara E. Mattei, economista, professoressa alla New School for Social Research di NewYork. Questo ultimo lavoro ribalta il racconto consueto dell’economia da cui siamo intossicati e rivela, ripercorrendo una lunga storia che dal fascismo arriva fino ai giorni nostri, quanta e che politica si nasconde dietro le scelte economiche. I tempi sono ormai maturi per smascherare le falsità insite in questa visione. Questo libro, accompagnato dai commenti di tre importanti economisti internazionali – Thomas Piketty, Branko Milanović e Adam Tooze – introduce una nuova prospettiva emancipatrice, capace di rivelare la trama nascosta dietro le questioni economiche centrali nella discussione pubblica: dall’austerità all’inflazione, dalla disoccupazione alla crescita, dalla concorrenza al debito al rapporto tra Stato e mercato, e moltissimo altro. Con precisione e incisività l’autrice spiega come il potere politico abbia costruito nel tempo un sistema profondamente antidemocratico, destinato scientemente ad arricchire pochi privilegiati, impoverendo per converso la maggioranza della popolazione e rendendo i cittadini sempre più sudditi. La conoscenza è il primo passo per immaginare un mondo diverso e per muoversi affinché esso diventi possibile.

Mattei – collaboratrice del Fatto Quotidiano – è autrice di The Capital Order, inserito dal Financial Times tra le dieci pubblicazioni più influenti dell’anno a tema economico, edito in Italia da Einaudi con il titolo di Operazione austerità ma con lo stesso sottotitolo: Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo. Nell’ottobre 2023 ha ricevuto l’Herbert Baxter Adams Prize, conferitogli dalla American Historical Association.

Ilfattoquotidiano.it pubblica qui un estratto dell’introduzione del nuovo libro.

***

Siamo a Bruxelles, è l’autunno del 1920. Uomini politici ed economisti provenienti da tutta Europa si siedono attorno ai tavoli di lavoro, sono riuniti per la prima conferenza economica internazionale. I toni formali e gli abiti eleganti non riescono a mascherare la tensione che si respira nell’aria. Le loro dichiarazioni lasciano trapelare un senso di accerchiamento, addirittura di angoscia, per quello che considerano un disordine inaccettabile, un caos sociale che sta portando l’economia capitalistica sull’orlo del baratro. Mentre costruivano un pacchetto di provvedimenti improntati alla più dolorosa austerità, i tecnocrati riuniti a Bruxelles erano ben consapevoli del fatto che il vento tirasse da tutt’altra parte. Indurre i cittadini a piegarsi all’ordine del capitale era più facile a dirsi che a farsi. Lo choc della guerra mondiale aveva scatenato nello spirito della gente comune un senso di rivalsa rispetto alle ingiustizie. La Grande Guerra aveva sprigionato una consapevolezza nuova: era emerso chiaramente quanto i lavoratori fossero il motore della macchina economica. L’inflazione montante di quegli anni non faceva che infervorare gli animi e acuire quel senso diffuso di fallimento del vecchio sistema capitalistico.

Alla pari dei suoi colleghi, il professor Luigi Einaudi ne era terrorizzato, sapendo che, ben lungi dall’essere un problema esclusivamente economico, l’instabilità monetaria era una questione intrinsecamente politica. Non per nulla, egli definiva l’inflazione come ciò che «pareva muovere nel profondo la società intiera e preparare alla rivoluzione sociale». Per di più, ne attribuiva la colpa proprio a quei lavoratori che, avendo ottenuto maggiori salari, erano incapaci di controllarsi e indulgevano in quel comportamento scialacquatore comprovato dagli «aumenti cospicui dei consumi non necessari di bevande alcoliche, dolci, cioccolata, biscotti». Ecco denunciata l’immoralità alla base del disequilibrio tra domanda e offerta, che andava disciplinata a qualunque costo, anche quello di sostenere il regime fascista di Benito Mussolini. Fu infatti proprio il Duce a garantire una sufficiente dose di austerità economica, caratterizzata da tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, riduzione dei salari e incremento dei tassi di interesse, che gli consentì di guadagnarsi il plauso degli esperti economici di tutto il mondo, anche di liberali come lo stesso Einaudi. Oggi i loro discepoli non la vedono certo diversamente.

La storia si ripete. Balzo in avanti di cento anni, siamo a Washington DC nel marzo del 2022. L’economia globale è scossa da un’altra ondata di inflazione monetaria. Gli esperti della Federal Reserve (Fed) si riuniscono a porte chiuse per alzare i tassi di interesse. Li alzeranno per più di un anno. La maggioranza di noi sente queste notizie alla radio o alla tv con distrazione mista a rassegnazione. Ci paiono scenari lontani, decisioni «economiche», quindi tecniche, che non ci riguardano direttamente e rispetto alle quali non possiamo fare granché. Ma è davvero così? Oppure questa capacità di «depoliticizzare» l’economia, ossia la capacità di allontanare la nostra partecipazione dalle decisioni economiche, è proprio la chiave del successo di un sistema che ci lega le mani e ci toglie la voce? Questo libro è animato anzitutto da un intento: provare ad abbattere quel diffuso luogo comune secondo il quale le decisioni delle istituzioni economiche (dalla Fed alla Banca Centrale Europea al Tesoro), cioè le scelte che danno forma alla nostra economia, siano «neutrali» o al servizio «del bene comune».

La «naturalizzazione» del capitalismo e la nostra ormai acquisita abitudine di delegare molte decisioni fondamentali agli esperti senza intrometterci troppo nei loro affari sono espressione della perniciosa depoliticizzazione dell’economia. Gli economisti di professione, la televisione, i social, i giornali perpetuano quotidianamente l’accettazione e la diffusione di narrazioni che mascherano il funzionamento del nostro sistema economico invece di spiegarlo. È ora di evadere da questa prigione. Mentre scrivo, ci sono moltissime donne e uomini che combattono per una società diversa, credendoci con tale abnegazione da rischiare la propria vita. Il mio è un minuscolo contributo, ed è l’esempio dei miei due prozii che continua a essere per me una fonte di ispirazione inesauribile.

In queste ultime righe introduttive voglio brevemente ricordare i fratelli di mio nonno Camillo, che intrapresero una risoluta battaglia contro l’oppressione fascista. Teresa Mattei, con il nome di battaglia di Chicci, fu la più giovane donna a sedere all’Assemblea costituente. Si deve a lei l’inserimento delle parole «di fatto» nell’articolo 3 della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Spirito libero, Teresa non ebbe paura di allontanarsi dal Partito comunista quando esso tradì i suoi ideali, e di affrontare la violenza delle SS quando, durante la Resistenza, approfittarono del suo corpo mentre portava messaggi partigiani. Suo fratello, Gianfranco Mattei, giovane professore di Chimica e gappista, fu catturato il 1° febbraio 1944 mentre costruiva bombe contro i fascisti. Dopo due giorni di sevizie continue, Gianfranco si impiccò con la sua cintura pur di non tradire i suoi compagni. Le ultime parole del mio prozio, scritte sul retro di un assegno consegnato di nascosto al compagno di cella, sono state per i suoi genitori: «Siate forti, sapendo che lo sono stato anch’io». Per essere forti ci servono strumenti forti. E allora proviamoci.