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‘Non governeremo o occuperemo Gaza’: gli alleati pressano, Netanyahu fa retromarcia. L’operazione di Israele non ha tempo illimitato

Fate quello che dovete fare, ma fatelo presto. Il messaggio parte da Washington, attraversa l’Atlantico e arriva direttamente a Tel Aviv. Mentre le operazioni militari a Gaza continuano senza sosta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre e le morti civili palestinesi aumentano nell’ordine di centinaia ogni giorno, Benjamin Netanyahu sa che il sostegno degli alleati storici, in particolare gli Stati Uniti, non sarà a tempo indeterminato.

Non solo, non potrà nemmeno portare ai risultati ipotizzati nei primi giorni di guerra, come testimonia il piano preparato dal ministero dell’Intelligence sulle tre opzioni per il futuro di Gaza. La prima, la preferita, era quella che prevedeva lo svuotamento della Striscia, una pulizia etnica da portare a termine con il trasferimento forzato di milioni di persone in Egitto e, successivamente, in altri Paesi amici. Trasformare in un non-luogo quell’enclave che dal 7 ottobre ha dimostrato di essere una spina nel fianco più dolorosa di quello che si credeva. Un piano però irrealizzabile perché solo Israele, ma non i suoi alleati e vicini, è disponibile a portarlo avanti. L’Egitto ha chiarito di non avere alcuna intenzione di ospitare i rifugiati palestinesi di Gaza, mentre Washington ha ribadito che nessun trasferimento permanente o a lungo tempo delle popolazioni è un’opzione praticabile. Così, in un’intervista alla Fox, anche Netanyahu ha dovuto fare dei passi indietro: “Israele non cercherà né di governare né di occupare Gaza”, ha detto aggiungendo che una “forza credibile” sarà necessaria “per entrare nell’enclave palestinese se necessario per prevenire l’emergere di minacce militari”. Più chiaramente: “L’esercito continuerà a mantenere il controllo su Gaza anche dopo la guerra. Non ci affideremo a forze internazionali”.

Parole ambigue, ma ben diverse da quelle pronunciate nei primi giorni di guerra dal ministro della Difesa, Yoav Gallant, che diceva di puntare alla “creazione nella Striscia di una nuova realtà di sicurezza sia per i cittadini di Israele sia per gli stessi abitanti di Gaza”. Le affermazioni di Netanyahu suggeriscono invece un allineamento di Israele a quello che è il piano americano: installare nella Striscia un nuovo governo dell’Autorità Nazionale Palestinese a trazione Fatah, con la possibilità per le Idf di compiere le sue “azioni anti-terrorismo” mirate se ritenuto necessario. Anche per questo il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha incontrato il presidente palestinese Abu Mazen nei giorni scorsi.

Al di là del fatto che questo progetto sia realizzabile o meno, il pesante prezzo già pagato in termini di vite umane, 1.400 israeliani uccisi, 240 ostaggi nelle mani di Hamas e oltre 10mila civili morti a causa delle bombe di Israele, oltre all’isolamento quasi totale di Israele nella regione che sta stimolando anche una nuova ondata di antiamericanismo tra importanti Paesi arabi e musulmani, impongono un limite di tempo alle azioni dell’esercito israeliano. Senza dimenticare che col passare dei giorni anche il sostegno incondizionato manifestato inizialmente dalle istituzioni europee e da diversi Stati membri dell’Ue si è trasformato prima in una richiesta di moderazione e, con gradi differenti, in una condanna per le azioni contro i civili di Gaza.

Le pressioni arrivano da più parti. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha più volte manifestato il suo sdegno per i bombardamenti sugli ospedali, le ambulanze e i campi profughi palestinesi, sostenendo che c’è qualcosa di “chiaramente sbagliato” nelle operazioni militari A Gaza, visto l’alto numero di morti civili. Gli osservatori Onu parlano di “punizione collettiva” e “crimini di guerra” commessi da Israele. Anche il generale americano Charles Q. Brown Jr., presidente dei capi di Stato maggiore congiunti, a chi gli ha chiesto se fosse preoccupato che un alto numero di vittime civili potesse generare futuri militanti di Hamas ha risposto: “Sì, moltissimo”. L’altra preoccupazione che circola tra i vertici militari americani e alla Casa Bianca è che alle azioni di Israele corrisponda una sempre maggior pressione esercitata dall’Iran sui suoi alleati armati nell’area: le milizie in Iraq e Siria che hanno già attaccato sedi statunitensi in Medio Oriente, gli Houthi yemeniti, ma soprattutto gli Hezbollah libanesi e i vari gruppi sparsi per la Palestina. Tutto questo rischia di generare un pericoloso allargamento del conflitto che anche Washington vuole assolutamente evitare. Senza dimenticare che Joe Biden, a un anno dalle elezioni, secondo gli ultimi sondaggi sta pagando molto cara quella che è una guerra non sua.

Washington, comunque, non ha ancora chiesto che si arrivi a un cessate il fuoco. A Israele viene concesso altro tempo, ma il rintocco delle lancette diventa un problema sempre più pressante per la morente amministrazione Netanyahu. Perché nel frattempo deve riuscire a portare a casa dei risultati importanti che giustifichino questo sforzo bellico, la perdita di alcuni soldati e le migliaia di vittime civili palestinesi. Deve riuscire, come dichiarato dai vertici militari, a isolare Gaza City dal resto della Striscia per limitare future operazioni di Hamas e altri gruppi estremisti e deve ancora trovare il suo trofeo da mostrare ai cittadini israeliani. La comunicazione di Tel Aviv non manca di sottolineare quotidianamente le uccisioni di comandanti di Hamas, ma l’obiettivo dichiarato, ciò che potrebbe addirittura mettere fine alla campagna militare, è però il leader del gruppo nella Striscia, Yahya Sinwar. Per l’esercito è nascosto sotto l’ospedale Al Shifa, gli Usa dicono invece di non avere informazioni di questo tipo. È lui la testa del serpente che Israele vuole tagliare per dichiarare compiuta la missione: “Sradicare Hamas”. Non la pensa così il generale Brown, come detto, e nemmeno Yaakov Peri, ex capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano. Anche lui teme che il serpente sia in realtà una Idra dalle nove teste e che Israele, con le uccisioni di civili, stia creando una nuova generazione di combattenti. Al New York Times ha detto: “Combatteremo i loro figli tra quattro o cinque anni”.

Twitter: @GianniRosini