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Il modo in cui i media affrontano il massacro di Gaza è un salto di qualità morale

Di fronte all’ennesimo atto del genocidio in corso in Palestina, il sentimento che ci attanaglia è di drammatica impotenza, di sgomento per un orrore a cui assistiamo in tempo reale con la drammatica impressione di non poter fare nulla. Ci rimane una cosa: dire cosa ne pensiamo, cercare di comunicare agli altri umani il nostro pensiero. Questo mi appresto a fare.

Il modo in cui i principali apparati – statuali, militari, informativi – occidentali trattano il massacro in corso a Gaza da parte delle truppe occupanti israeliane rappresenta un salto di qualità morale che parla del degrado assassino delle élite occidentali. Due mi paiono le caratteristiche principali. Le costruzione di una narrazione fondata integralmente sulle menzogne. Non è solo il problema delle singole bugie – che pure sono rilevanti – dalla ipotetica decapitazione dei bambini alle accuse ad Hamas di aver bombardato l’ospedale battista di Gaza. E’ il complesso della narrazione che rovescia la realtà, descrivendo gli occupanti, ipertecnologici e iperarmati, che hanno violato per decenni tutte le risoluzioni della Nazioni Unite come le povere vittime, mentre i palestinesi sono descritti come barbari violenti e bruti, non umani, come ha detto senza avere grandi reazioni negative il ministro della Difesa israeliano.

I non umani, questa razza inferiore che abusivamente occupa da secoli i propri territori, viene infatti sottoposto ad apartheid dallo stato israeliano senza che questo faccia problema ai potentati occidentali. Anzi questi ultimi considerano e dipingono questo stato fondato sull’apartheid e sul razzismo come un baluardo della democrazia. Sull’accettazione di questo stato di fatto l’occidente costruisce una narrazione fondata integralmente su un doppio standard valutativo: gli israeliani vengono barbaramente assassinati, i palestinesi muoiono; gli uni si difendono, gli altri sono sadici criminali, e così via.

Non voglio proseguire oltre perché qualunque persona dotata di una qualche capacità critica nell’uso della propria intelligenza è in grado di rintracciare altre decine di esempi. Il nodo è cogliere il punto di fondo che a mio parere emerge: le élite occidentali in declino sono diventate il principale ostacolo allo sviluppo dell’umanità nella sua accezione più ampia. Stanno perdendo il primato economico, quello tecnologico e quello finanziario. In particolare quelle statunitensi ritengono che il tempo e la pace giochino a loro sfavore e che solo la guerra possa ristabilire il dominio di un occidente in declino. E’ l’occidente a mettere in discussione la pace mondiale e la Nato è stata ristrutturata nel corso dell’ultimo anno per essere lo strumento operativo attraverso cui perseguire la strategia di guerra a livello mondiale.

La Cina e tutte le potenze emergenti del Sud del mondo, che viaggiano a velocità doppia dell’occidente, sono interessate ad avere la pace. Perché grazie alla pace possono sovvertire le gerarchie mondiali. Anche la Russia, che a causa del cambio climatico vedrà la Siberia diventare il granaio del mondo nei prossimi decenni (due terzi delle terre coltivabili mondiali) ed è un autentico forziere di materie prime con una una popolazione assai ridotta, ha tutto da guadagnare in una situazione di pace. Le élite occidentali, che nella pace vedono la perdita del proprio potere e dei propri privilegi, sono interessate alla guerra. Per questo l’unica strada è il decoupling, il disaccoppiamento. Non tra l’economia occidentale e quella cinese, ma tra i popoli occidentali e le élite che le dominano colonizzando integralmente l’immaginario.

Rendere evidente che gli interessi dei popoli occidentali – sempre più impoveriti – non hanno nulla a che vedere con quelli delle élite occidentali e che i valori della civiltà occidentale non hanno nulla a che vedere con quelli propagandati dalle élite mi pare il vero compito che abbiamo, qui ed ora in occidente. Produrre una consapevolezza che i nostri nemici non hanno gli occhi a mandorla o la pelle scura, ma sono “i nostri” che ci sfruttano cercando di ammaestrarci blandendoci e manipolando la realtà.

Proprio in questa ora buia, la protesta di centinaia di ebrei statunitensi che insieme ad altri hanno occupato il Campidoglio per manifestare contro il governo israeliano e per il cessate il fuoco ci indicano che questa strada è possibile. Nella protesta dei nostri fratelli con la kippah in testa che hanno chiesto che gli Stati Uniti la smettano di finanziare il genocidio israeliano nei Territori palestinesi e che per questo sono stati arrestati, vediamo la speranza e la strada da seguire: la più netta, radicale separazione e contrapposizione alle élite che dicono di rappresentarci. Not in my name non è solo uno slogan ma deve diventare il punto di partenza del nostro modo di pensare e di agire. Di essere.