Scuola

Formazione docenti, le proteste dei precari per il dpcm 60 Cfu: “Costretti a spendere altri 2500 euro per crediti. Non siamo bancomat”

“Non siamo dei bancomat”. A fare appelli al ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, sono le migliaia di docenti o futuri professori delle secondarie. Grazie al decreto legge 36 del 30 aprile 2022, fortemente voluto dall’ex ministro Patrizio Bianchi e mai modificato dall’attuale governo, per poter accedere al concorso ordinario per avere una cattedra, non basteranno più i 24 Cfu (Crediti formativi universitari nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche e linguistiche), ma ne serviranno sessanta. Questo significa che si dovranno sborsare altri soldi (2.500 euro circa). Un grosso problema per chi è già docente precario con 24 Cfu istituiti con il Decreto legislativo 59 del 13 aprile 2017 e ora dovrà tornare a studiare e pagare per poter accedere al concorso.

Nella pratica oggi, chi vuol diventare insegnante deve deciderlo fin dall’università e soprattutto, deve acquisire i 60 Cfu parallelamente alla laurea. Ma non solo. Deve anche superare un esame scritto e una lezione simulata. Una volta ottenuta l’abilitazione, questa durerà per sempre ma non dà diritto alla cattedra. Per ottenere quest’ultima, infatti, bisogna comunque superare il concorso ordinario e svolgere un anno di prova.

Un’odissea per migliaia di docenti e studenti che hanno scelto la strada dell’insegnamento.Per molti di noi precari storici”, dice a ilfattoquotidiano.it Ilaria Petri, “questi percorsi sono discriminanti per due motivi. Il primo: chi si troverà nelle condizioni di dover acquisire solo 36 cfu (perché già in possesso, da anni, dei 24, pagati profumatamente), si dovrà iscrivere al percorso da 60 Cfu, e pagare per 60. È come se i 24, si pagassero una seconda volta. Il secondo: non sono previste lezioni in modalità asincrona, ma solo in presenza e di mattina. In questo modo, chi ha figli da seguire il pomeriggio o un lavoro che non consente di prendere permessi, con turni pomeridiani; chi non può permettersi di licenziarsi, perché altrimenti non saprebbe come vivere (né come pagare il percorso abilitante in questione) cosa fa? È costretto a rinunciare per sempre alla possibilità di abilitarsi?”.

Maria, invece, è specializzata Tfa sostegno (superando prima le selezioni e poi frequentando un corso di circa un anno pagato tre mila euro) inoltre ha superato il concorso ordinario per scienze giuridiche ed economiche: “Sono – spiega al “Il Fatto Quotidiano.it”- in prima fascia aggiuntiva B per sostegno e prima fascia per A046 e, nonostante ciò, sono a casa senza convocazione. Ho anche tentato la minicall veloce in Piemonte ma non sono rientrata negli immessi in ruolo. Sono molto amareggiata, dopo enormi sacrifici (anche supplenze a Torino, a mille chilometri da casa soprattutto dai miei tre figli), ora si prospettano nuove selezioni da affrontare e altri soldi da sborsare”.

Per chi vuole salire in cattedra non c’è mai fine. In appena vent’anni l’abilitazione all’insegnamento è stata interessata da una riforma o da un aggiornamento, per ben sei volte: si è passati dalla famosa SSis (Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario) al Tfa (Tirocinio formativo attivo) che secondo l’allora ministro Mariastella Gelmini, era “il percorso più duro e professionalizzante per abilitare una classe docente”. Con il decreto 59/2017 lo stesso Tfa fu a sua volta soppresso e sostituito dal percorso Fit (Formazione, inserimento, tirocinio), un progetto, in realtà, mai decollato per poi arrivare alla laurea magistrale in Scienze della formazione primaria, abilitante all’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria. Infine, prima dei Cfu, i Pas (Percorsi abilitanti speciali), ormai fermi da circa otto anni.

Tutte proposte per nulla incoraggianti. Lo sa bene Nicole, ventisette anni, cinque dei quali trascorsi in qualità di studente presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha conseguito la laurea triennale in Lettere lo scorso luglio e ora è al secondo anno di magistrale in italianistica. “L’introduzione – dice al mostro giornale – di un ennesimo step all’iter di formazione della classe docente, alla luce del nuovo Dpcm per la Scuola, non fa che gettare ulteriori ed angosciose ombre sul futuro di chi ha investito già molteplici ed esose energie e risorse per accedere un domani – sempre più lontano, se le cose non cambieranno – alla professione di insegnante”.

La giovane studentessa palermitana si interroga: “Il master da 60 Cfu non trova altra spiegazione se non quella che vedrebbe come obiettivo non tanto quello di garantire una più efficace e valida istruzione scolastica, bensì quello di impiegare, a spese di chi potrà pagare (e non saranno molti a potere), l’ennesimo dispositivo volto a rimpinguare le tasche dei singoli e non della collettività, ancora una volta dimenticata ed ingiuriosamente sacrificata. Ciò non fa in effetti che acuire il profondo sconforto che condivido con persone che hanno aspirato a diventare insegnanti impegnati e partecipi prima e dopo di me”.

Altra storia quella di Michela Paduro, un’insegnante precaria a 50 anni: “Ho fatto l’educatrice presso una cooperativa sociale per molti anni, dopo la laurea in lettere, perché sentivo di volere aiutare i ragazzi problematici. Ho lavorato con preadolescenti ed adolescenti sia in un semi-convitto, dove venivano dopo la scuola e facevamo i compiti oltre ad altre attività educative, sia come educatrice di strada e in comunità. Ho fatto un corso di Mediazione dei conflitti con un’Associazione adesso riconosciuta ed ho il diploma di un master in Mediazione familiare. Non elenco tanti altri corsi seguiti e assimilati in ambito psico-pedagogico. Ad una certa età, quando si ha una famiglia, la vita dell’educatore risulta impossibile e, quindi, ho pensato di dare la mia disponibilità ad una scuola di periferia dove ci sono molti ragazzi con diverse problematiche. Ho lavorato prima tre anni alla primaria e questo è il quarto anno che lavoro alla secondaria di primo grado per cui mi sento più portata, anche per la mia esperienza pregressa”. Quest’anno Michela non è riuscita ad ottenere la cattedra annuale sulla mia materia: italiano, storia e geografia ed ho accettato l’annualità sul sostegno. “Mi sembra – aggiunge la professoressa – assurdo il percorso che viene richiesto oggi dal Governo per potere avere l’abilitazione ad insegnare e poi il ruolo: ormai è diventato un percorso ad ostacoli veramente complicato per chi lavora ed ha una famiglia e troppo oneroso per tutti, anche per i giovani che dovrebbero spendere una cifra esagerata”.

Molte persone, infatti, non potranno permettersi altri 2.500 per pagare un master da 60 Cfu, somma di denaro alla quale andranno ovviamente sommate tutte le spese che le famiglie saranno costrette a sostenere se trattasi di studenti che non possono certo mantenersi da sé senza una retribuzione e con già un minimo di cinque anni di università alle spalle. “La corsa ai punteggi – aggiunge Nicole – si farà più sanguinosa, i Cfu diverranno ancora una volta oggetto di acquisto e non di conseguimento. La credibilità delle competenze acquistate vorticherà verso il basso”.

Una situazione ben nota ai Confederali che da mesi cercano di farsi sentire. Dura la posizione della segretaria della Flc Cgil, Gianna Fracassi: “Noi siamo in campo da sempre per chiedere la gratuità dei percorsi, essendo la formazione un diritto-dovere imprescindibile, non un optional, per coloro che intendono accedere all’insegnamento. Siamo stati inascoltati, ma non demordiamo. Poiché la norma prevede i costi massimi, sia per i percorsi da 60 che per quelli da 30 cfu, lasciandone la determinazione all’autonomia universitaria, faremo il possibile perché gli atenei applichino riduzioni significative e criteri di progressività. Per quanto riguarda la frequenza, riteniamo che vadano garantite le condizioni per consentire l’accesso, a partire dalla fruizione delle 150 ore per il diritto allo studio e dall’applicazione di flessibilità oraria affinché i turni di lavoro siano compatibili con la partecipazione alle attività formative”.

Dello stesso parere il segretario della Uil Scuola, Giuseppe D’Aprile: “Un Dpcm che arriva a distanza di più di un anno dal suo annuncio e che comunque non ci lascia pienamente soddisfatti. Restano infatti diversi nodi irrisolti che riguardano in particolar modo i docenti che hanno già tre anni di servizio o i 24 Cfu per i quali stiamo chiedendo un accesso diretto ai percorsi e un rapporto costi abilitazione anche in base ai crediti già posseduti. Non è possibile, infatti, che chi ha già i 24 Cfu e che ha quindi già sostenuto un costo, debba pagare la stessa cifra per 36 Cfu di chi ne dovrà conseguire 60. Abbiamo inoltre rivendicato durante gli incontri al Ministero che per i docenti con tre anni di servizio non sia prevista nessuna selezione in ingresso suggerendo lo stesso criterio che è stato utilizzato per il Pas del 2013 ovvero lo scaglionamento su più anni formativi considerando però l’anzianità di servizio e la possibilità di svolgere le lezioni in modalità sincrona anche oltre il 50%. L’obiettivo deve essere quello di non disperdere l’esperienza e di valorizzarne il “merito” maturato sul campo”. Più morbida Lena Gissi, segretaria nazionale della Cisl Scuola: “I precari con tre anni di servizio avranno un percorso abilitante di 30 cfu che ha un costo più basso rispetto a quello di 60. La Cisl Scuola ritiene che i 24 cfu che sono riconosciuti come crediti già acquisiti debbano comunque determinare una riduzione dei costi. Le lezioni normalmente sono di pomeriggio. La formazione abilitante è secondo noi un’opportunità per un futuro doppio canale di assunzione. Fino ad oggi per abilitarsi c’era una solo strada ossia vincere il concorso e questa strada non è stata una soluzione per molti precari.