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Due anni dopo, l’Afghanistan resta una macchia. Soprattutto per la violenza di genere

La notte del 5 settembre 2019, un raid di elicotteri militari statunitensi investì un villaggio afghano in una remota area del Paese: le bombe distrussero case di fango e uccisero una ventina di persone, ufficialmente “foreign fighters e le loro famiglie”. Una neonata ritrovata viva fra le macerie venne poi adottata dalla famiglia formata da Joshua e Stephanie Mast. Joshua, un maggiore dei Marines, è un avvocato del team di legali del corpo.

Quasi quattro anni dopo, la bambina è al centro di una disputa fra gli abitanti del villaggio superstiti e organizzazioni umanitarie internazionali, da una parte, e i genitori adottivi dall’altra: il processo si celebra davanti a una corte di Charlottesville in Virginia. Il regime dei talebani e l’Amministrazione federale Usa sono pure coinvolti. Gli afghani sostengono che il raid non colpì ‘foreign fighters’, ma distrusse famiglie di contadini, e che lasciò superstiti altri fratellini e sorelline della bebè adottata, di cui chiedono la restituzione ai suoi familiari; i Mast, che hanno nel frattempo allevato la piccola come figlia, vogliono che l’adozione sia avallata.

La Croce rossa internazionale, che ha trovato i parenti della bambina superstiti, fratelli e sorelle – tutti sostengono che i genitori erano agricoltori, non miliziani – ritiene che la piccola debba crescere con loro. I Mast, invece, insistono che la bambina è un’orfana senza cittadinanza – i genitori erano ‘foreign fighters’ che vivevano in una base di al Qaida – e chiedono conferma di una sentenza di adozione pronunciata da un giudice della Virginia rurale a oltre 10mila chilometri di distanza dalla ‘scena del crimine’, il raid che privò la bimba di mamma e papà.

Raccontata con dovizia di dettagli e struggenti immagini dall’Associated Press, la vicenda è solo uno degli innumerevoli dolorosi strascichi di vent’anni di conflitto afghano conclusosi, nell’agosto del 2021, con un ritorno alla casella di partenza: il 15 agosto, i talebani ripresero possesso di Kabul e, di fatto, dell’intero Paese; a fine agosto, gli occidentali completarono l’evacuazione della capitale.

Dopo quasi 180mila morti afghani, di cui quasi 50mila sicuramente civili, e oltre tremila caduti occidentali – più di 2.300 gli statunitensi, 53 gli italiani -, il tragico ritorno alla casella di partenza della ‘lunga guerra’ segnava il fallimento dell’operazione lanciata il 7 ottobre 2001, quando l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush diede l’ordine di rovesciare il regime dei talebani e distruggere i ‘santuari’ dell’organizzazione terroristica al Qaida da loro protetti, quattro settimane dopo l’attacco all’America dell’11 settembre, che fece complessivamente circa tremila vittime.

Tremila miliardi di dollari spesi, oltre 2300 dagli Stati Uniti, non sono serviti a dotare l’Afghanistan di un’organizzazione statale solida ed efficiente e a farne una democrazia: il governo fantoccio si squagliò; i leader corrotti fuggirono; l’esercito addestrato e armato dagli Stati Uniti e dai loro alleati non combatté. Al momento del ritorno dei talebani, c’erano ancora 2,6 milioni di afghani rifugiati all’estero e oltre quattro milioni di sfollati interni.

Tutte le cifre citate sono tratte da fonti occidentali, spesso stime di organizzazioni internazionali. Per tacitarci le coscienze, nel momento in cui lasciavamo chi s’era fidato delle nostre assicurazioni in balia dei talebani, che hanno l’appoggio di larga parte dell’Afghanistan rurale e tradizionalista, facemmo l’ennesima promessa: “Non vi dimenticheremo”. E invece ce ne siamo rapidamente dimenticati. Basta un dato a dimostrarlo: usando l’Ansa come paradigma dell’informazione italiana, nell’anno intercorso dal 15 agosto 2021 al 15 agosto 2022 ci sono state 3144 notizie sull’Afghanistan, di cui ben 2930 fino al 31 dicembre – una media di oltre 20 al giorno – e appena 220 dopo – una media di una al giorno; nell’anno successivo, ci sono state 165 notizie in tutto, meno di una ogni due giorni.

Nell’anniversario della presa di Kabul da parte dei talebani, Amnesty International ci ricorda che lo spazio sociale, culturale e di vita delle donne s’è drammaticamente ristretto e che decine di loro sono state arrestate e torturate per essersi opposte al regime discriminatorio che le opprime; eppure, alcune di loro continuano a resistere e a manifestare. Il Global Gender Gap realizzato dal World Economic Forum e pubblicato in giugno mostra che nessuno dei 146 Paesi valutati ha ancora raggiunto la parità di genere piena, ma conferma che l’Afghanistan sta in fondo alla classifica, dietro Ciad, Algeria, Iran e Pakistan.

Le cronache dall’Afghanistan, ormai sporadiche, riferiscono di scontri sui confini, specie con l’Iran a ovest e il Pakistan a est; di attentati dell’Isis, che è ostile al regime dei talebani; di un incremento dei migranti; di corridoi umanitari aperti con il contagocce; di invasioni di cavallette che compromettono i raccolti. Ma la maggior parte delle poche notizie riguardano discriminazioni nei confronti delle donne, che non possono più lavorare né frequentare spazi pubblici come parchi e palestre e a cui è stato pure proibito di lavorare per le Nazioni Unite e persino di frequentare i ristoranti, sia pure solo all’aperto – nel nord ovest, nella provincia di Herat, quella relativamente ‘liberale’ dove c’erano gli italiani. A giugno, un’ottantina di allieve di scuole primarie nella provincia di Sar-e-Puyl, nel Nord, sono state avvelenate da un uomo che avrebbe agito – dice una fonte ufficiale – “per rancori personali”. E’ la prima volta che una cosa del genere, già accaduta in Iran, avviene in Afghanistan.

Sono solo alcuni episodi quasi aneddotici di una discriminazione sistematica. Come altri dati, pure questi non esaustivi, danno un’idea della tragica eredità di vent’anni di conflitto: nel 2022, oltre 700 bambini sono stati uccisi o feriti dall’esplosione di mine o di altri ordigni rimasti – in media, sono due al giorno; e nei primi sei mesi di quest’anno oltre 300 persone sono state fustigate in pubblico dai talebani, “274 uomini, 58 donne e due ragazzi”. Le fonti sono organismi dell’Onu.

L’Ufficio dell’Onu per gli affari umanitari in Afghanistan stima che oltre 20 milioni di cittadini afghani vulnerabili, oltre la metà dei 40 milioni di abitanti stimati, abbiano bisogno di assistenza e servizi di protezione. Le vulnerabilità vanno dalla generica necessità di protezione generale (14,1 milioni di persone) alle cure per l’esplosione di mine e altri residuati bellici (5 milioni), dalla tutela dei bambini (7,5 milioni) alla violenza di genere (10,1 milioni). Saranno 5,9 milioni gli afghani bisognosi di aiuto per difficoltà abitative.

Per rispondere all’emergenza ci vorranno 170 milioni di dollari: sono briciole, rispetto ai soldi spesi per fare la guerra. Ma l’Occidente è ancora occupato a cercare di capire che cosa non ha funzionato nei vent’anni di conflitto afghano, con indagini su crimini di guerra negli Usa e nel Regno Unito e polemiche sulla ‘rotta di Kabul’ che fu frutto di un negoziato malamente condotto dall’Amministrazione Trump e che fu ingenuamente gestita dall’Amministrazione Biden.

Due anni dopo, l’Afghanistan è una macchia che, invece di provare a cancellare, preferiamo dimenticare.