Cultura

Michela Murgia è morta, aveva 51 anni. I romanzi, il femminismo, l’antifascismo e la lotta per i diritti: la vita sulle barricate della scrittrice sarda

Michela Murgia è morta. La scrittrice femminista e agitatrice culturale originaria di Cabras (Oristano) aveva 51 anni. Pochi mesi fa aveva rilasciato un’intervista dove affermava di soffrire di un carcinoma renale al quarto stadio e che da lì “non si poteva tornare indietro”. In molti oggi la ricordano paladina di una radicale battaglia femminista – “percorso di lotta al superamento della discriminazione di genere” – poi trasformata di recente nel concetto largo di “famiglia queer” celebrata con un “non matrimonio”, ma è soltanto dal 2019 che la scrittrice sarda inizia a dedicarsi completamente a questa ri-costruzione identitaria di contenuto e linguaggio.

Grazie ad un paio di saggi scritti con Chiara Tagliaferri – Morgana: storie di ragazze che tua madre non approverebbe e Morgana: L’uomo ricco sono io (editi da Mondadori entrambi) – e in un altro saggio del 2018 – L’inferno è una buona memoria (Marsilio) – Murgia denuncia la mai messa in discussione condizione esistenziale e identificativa al maschile che ha contraddistinto l’immaginario letterario e il linguaggio tutto del quotidiano relegando la donna a ruolo di casuale comprimaria. “Si è femministe se ci si ribella alla condizione femminista come destino, ma si è altrettanto femministe se quella generatività la si rivendica come fondativa e la si vive come modalità specifica di stare al mondo, a prescindere dal fatto che i figli li si faccia o meno”, scriveva nel 2018.

Nel 2019, appunto, è il momento di un’intuizione grammaticale che tenta di rivoluzionare la lingua italiana: la schwa. Nei libri scritti con Tagliaferri spiega: “Dove è stato possibile abbiamo quindi scelto di non utilizzare il maschile sovra esteso, che tradizionalmente pretende di rappresentare anche il genere femminile, e l’abbiamo sostituito con il fonema schwa, che dà vita a un plurale neutro”. In un celebre video cliccati milioni di volte Murgia racconta come si dovrebbe pronunciare il neo-fonema: “Se volete pronunciarlo non dovete imparare nessun suono estraneo: l’avete già fatto cantando le canzoni di Pino Daniele (je so pazzo, Napule è) o dicendo correttamente parole inglesi come about, sister, other”. Prima ancora del saggio sul femminicidio del 2013 – L’ho uccisa perché l’amavo: falso! – è del 2011 il libro chiave per comprendere la trasformazione culturale e ideologica dell’autrice sarda. È con Ave Mary – e la chiesa inventò la donna (Einaudi) che Murgia, ex attivista di Azione Cattolica e ex insegnante di religione (nel 2007 aveva sostenuto addirittura la candidatura di Mario Adinolfi alla segreteria del Pd), critica radicalmente il ruolo della donna nella narrazione imposta dalla Chiesa Cattolica. E lo fa in maniera travolgente anche se screziata di ironia (spesso nei suoi libri deforma o cita brani di musica leggera italiana alla maniera di Lella Costa) partendo ad esempio dalla rappresentazione della morte nei racconti sacri, come nei libri e nei film: sempre una morte al maschile, ma quella della donna dov’è?

Curioso, peraltro, che la Murgia giunga ad una battaglia anti patriarcale e anti maschile dopo una importante anche se rapida carriera di romanziera ma soprattutto dopo aver esordito da perfetta sconosciuta denunciando, sempre con piglio divertito e dissacrante, le criminali follie del mondo del lavoro neoliberista. A 35 anni era infatti salita agli onori delle cronache nazionali nel 2006 quando pubblicò per ISBN (oggi ristampato da Einaudi che ha pubblicato la quasi totalità dei suoi titoli successivi) Il mondo deve sapere – Romanzo tragicomico di una telefonista precaria. Sorta di funambolica e un po’ pazza denuncia dell’esasperato e forsennato ritmo di lavoro nel precariato di un call center di una multinazionale statunitense. Un racconto in forma di auto fiction con al centro il suo periodo di lavoro come operatrice di telemarketing per la Kirby che poi diventerà canovaccio per il film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti.

A dire il vero Murgia avrebbe voluto diventare una romanziera tout-court. E a dire il vero ci era pure riuscita con un’opera prima importante come Accabadora (2009, Einaudi). Romanzo vincitore del premio Campiello, nonché tradotto in numerose lingue, Accabadora è ambientato in un piccolo paese della Sardegna degli anni cinquanta dove una bambina viene accudita e ospitata in casa dall’anziana sarta del paese, donna che cela un mistero antico e profondo riguardante il crinale tra la vita e la morte. C’è qualcosa di inquietante in questo romanzo oscuro, qualcosa tra il fascino dell’esoterico e la rudezza dell’antropologico che sembra già in controluce stagliare nell’orizzonte letterario due figure femminili a tutto tondo, con uomini pressoché assenti, in grado di forgiare un immaginario dei lettori declinato al femminile, soprattutto con il riferimento brutale al tema/tabù dell’eutanasia.

Forte anche la componente antifascista nel corpus murgiano post 2011 con tanto di collaborazioni e duetti con Roberto Saviano e numerosi gli interventi pubblici su giornali, radio, web e tv per rimarcare le proprie intuizioni linguistiche, culturali, ideologiche. Murgia si era candidata anche diverse volte in politica: nel 2010 ancora lontana dalla rivoluzione femminista si era detta vicina all’indipendentismo sardo e alle regionali del 2014 si era candidata alla testa di tre formazioni che oggi in molti definirebbero “populiste” raccogliendo il 10% dei voti; mentre nel 2019 la sua candidatura alle Europee per La Sinistra ha ottenuto l’ 1,75%. Murgia è stata sposata dal 2010 al 2014 con il bergamasco Manuel Persico, e si è poi risposata con un “non matrimonionel 2023 con il 35enne Lorenzo Terenzi. I matrimoni tradizionali “sono la cosa più fascista che esista”, aveva spiegato la scrittrice sarda – “e negano la volontà, la specialità meravigliosa di amare qualcuno in modo assolutamente libero, senza dipendere da nessun destino genetico”. Alla cerimonia tutta in bianco con il logo “god save the queer” stampato in rosso sui vestiti dei partecipanti – richiamo tra l’altro all’ultimo suo omonimo libro – erano presenti non solo le fedelissime Chiara Valerio e Chiara Tagliaferri, membri della famiglia queer murgiana, ma anche Saviano, Nicola Lagioia e Teresa Ciabatti.