Mafie

Il sacrificio dei due giudici Bruno Caccia e Mario Amato ha restituito lo Stato alla gente

Tra il 1980 e il 1983 l’aria in Italia puzzava di polvere da sparo. Il livello di violenza politica con finalità terroristiche era ancora altissimo: sparavano tutti, i rossi, i neri, i mafiosi. A volte adoperando armi tanto simili da apparire proprio le stesse, ma in contesti ritenuti così distanti tra loro da far sembrare la coincidenza del tutto impossibile.
Il 23 giugno del 1980 (anno terribile!), a Roma veniva assassinato il giudice Mario Amato.

Ad assassinarlo un commando di NAR, benedetto dai soliti Fioravanti e Mambro. A sparare un colpo alla nuca del magistrato che stava aspettando il pullman per andare al lavoro fu Cavallini, a guidare la moto il complice Ciavardini. Sì, proprio lui, quel Luigi Ciavardini ricomparso in una fotografia che lo ritrae insieme all’on. Chiara Colosimo, attualmente presidente della Commissione parlamentare antimafia. Una fotografia che ha provocato la giusta ribellione di molti familiari delle vittime delle stragi, che proprio non possono perdonare alla Colosimo un atteggiamento così confidenziale da sembrare sintomatico o di grave ignoranza, o di ancor più grave compiacenza. Entrambe colpe comunque inescusabili in chi sieda su quella poltrona.

Il giudice Amato a Roma stava indagando sull’eversione nera e la scia di sangue che aveva lasciato e in quella scia c’era anche il sangue del suo predecessore, il giudice Occorsio, ammazzato qualche anno prima dal camerata Concutelli, comandante di Ordine Nuovo. Il giudice Amato poco prima di essere ucciso era stato sentito dal Csm, dove aveva rappresentato non soltanto la pericolosità dell’eversione nera, ma anche la sua pervasività e i collegamenti con ambienti istituzionali importanti. Al Csm Amato denunciò pure la solitudine assoluta nella quale era costretto a muoversi, l’inadeguatezza dei mezzi, l’assenza di una seria azione da parte della Procura nel suo complesso. Soltanto nel 1981 la scoperta degli elenchi a Castiglion Fibocchi farà esplodere il bubbone piduista e si comincerà ad avere la misura della penetrazione di questa organizzazione criminale anti democratica nelle articolazioni dello Stato, Csm compreso.

Due anni più tardi, a Torino, la notte del voto per le politiche del 1983, il 26 giugno, un commando di mafiosi ‘ndranghetisti colpiva a morte il Giudice Bruno Caccia, Procuratore della Repubblica, che aveva dato un impulso determinante all’azione penale sia contro il terrorismo rosso sia contro il crimine dei colletti bianchi, anche di stellette guarniti, come nel caso dello “scandalo petroli”. Probabilmente Caccia, visto il ruolo apicale ricoperto, non si sentì mai così solo come fu il giudice Amato, ma di certo dovette sentirsi in alcuni momenti quasi un alieno, considerato il tasso significativo di connivenze esistenti allora a Torino tra ambienti criminali e pezzi di istituzioni. Sicuramente un corpo estraneo che andava eliminato.

L’omicidio di Bruno Caccia, nonostante gli sforzi titanici di investigatori, magistrati, avvocati e famigliari, viene attribuito processualmente solo alla ‘ndrangheta, in fortissima ascesa in quel periodo, dopo che la scena criminale era stata dominata dai mafiosi catanesi. Una conclusione che, pur rappresentando senz’altro una verità, è molto probabilmente soltanto un pezzo di verità, stante che l’analisi del contesto di quegli anni restituisce costantemente un intreccio perverso tra ambienti criminali mafiosi e terroristici ed ambienti massonici e istituzionali, intrecci in vario modo riconducibili alla strategia antidemocratica che puntava al mantenimento dello status quo. Caccia in questo senso farebbe due volte eccezione: unico magistrato assassinato dalla mafia nel nord Italia e unico ad essere ucciso, inaudita altera parte, soltanto dalla mafia, indispettita dalla sua intransigenza.

Mi chiedo che valore abbiano ancora queste memorie oggi.

Gian Carlo Caselli in una recente intervista concessa ad Elisa Chiari per Famiglia Cristiana, commentando i gravi fatti di Verona, mi ha offerto pur indirettamente una risposta: il sacrificio della vita di persone come Mario Amato o Bruno Caccia ha contribuito ad alimentare la credibilità dello Stato e quindi a salvare la democrazia: “Hanno compiuto una missione storica, restituire lo Stato alla gente”.

Verrebbe da sottoscrivere questa riflessione, attribuendo a questa “missione storica” anche il merito di una sostanziale vittoria: la democrazia italiana in effetti ha tenuto, ha superato quelle prove terribili, sgominando tanto le organizzazioni terroristiche rosse quanto quelle nere, scoperchiando il pentolone mefitico della Loggia massonica Propaganda due, contrastando efficacemente le mafie e in particolare azzerando la Cosa Nostra guidata dai corleonesi. Insomma: il sacrificio di tanti servitori dello Stato avrebbe scatenato una forza inarrestabile tanto nelle istituzioni quanto nella società civile che ha saputo produrre il cambiamento. E in effetti dal 1994 la violenza politica sembra relegata ad episodi non rappresentativi di un ritorno al passato, anche se pur sempre drammatici e dolorosi (come gli omicidi D’Antona, Biagi, Petri).

Mi verrebbe… se non fosse per una spiacevole sensazione. E cioè la sensazione che a pacificare il Paese dopo quei decenni di sangue e terrore non sia stata soltanto la capacità civica di reagire, ma anche una formidabile capacità camaleontica delle articolazioni più dotate di quegli intrecci, che hanno saputo chinare la testa, come giunchi al passare della tempesta, restando pronti a rialzarla alla prima occasione. Anche per questo resta grave, tra gli altri segni, quella fotografia che ritrae l’attuale presidente della Commissione parlamentare antimafia a braccetto e sorridente con chi, quella mattina del 23 giugno 1980, contribuiva a togliere la vita ad un bravo giudice, senza nemmeno guardarlo in faccia.