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Attanasio, perché il governo non si costituisce parte civile al processo? Chigi teme conseguenze economiche e politiche nel rapporto con l’Onu

Da una parte c’è la necessità di dare alle famiglie delle vittime verità e giustizia sul triplice omicidio dell’ambasciatore italiano in Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, del carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci, e dell’autista del Programma alimentare mondiale (Pam), Mustapha Milambo. Dall’altra, però, ci sono i rapporti diplomatici ed economici tra lo Stato italiano e le agenzie dell’Onu che si oppongono, invocando l’immunità, alla richiesta di rinvio a giudizio per i loro dipendenti, Rocco Leone e Mansour Rwagaza, accusati di omicidio colposo e omesse cautele dalla Procura di Roma. È in questo gioco di equilibri che il governo di Giorgia Meloni si è mosso decidendo, secondo le ultime indiscrezioni raccolte da Ilfattoquotidiano.it e nonostante le proteste dei familiari e delle associazioni che seguono il caso, di non costituirsi parte civile in occasione dell’udienza preliminare fissata per la mattinata di giovedì 25 maggio. Anche se, di fatto, lo Stato è parte lesa in questa vicenda: le vittime dell’agguato del 22 febbraio 2021 sulla Route Nationale 2 tra Goma e Rutshuru erano due servitori della Repubblica nell’esercizio delle loro funzioni.

Come raccontato dal padre dell’ambasciatore, Salvatore Attanasio, al Fatto Quotidiano, di rassicurazioni alla famiglia ne sono arrivate tante da diversi ambienti istituzionali e governativi. Parole che non si sono tradotte, però, in atti concreti in vista dell’udienza. Domenica è stato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a fornire una risposta sulla questione: “Su Attanasio si deciderà il da farsi nell’interesse del Paese e della verità, il processo va avanti e tuteleremo l’interesse nazionale nel modo migliore possibile”. Evidentemente, ad oggi, l’interesse nazionale dice che la scelta migliore è quella di non andare allo scontro con le Nazioni Unite costituendosi parte civile nel processo.

A rigor di logica, però, la scelta del governo Meloni è in contraddizione con gli interessi stessi dello Stato, ossia quelli di garantire verità e giustizia per i propri cittadini e, in questo caso, servitori uccisi. Lo conferma la diversa impostazione assunta rispetto, ad esempio, al processo che si è svolto in Congo nei confronti dei sei presunti esecutori materiali dell’agguato. In quell’occasione, l’Italia si è costituita parte civile nel processo. Quali sono, quindi, le differenze tra i due procedimenti? Le persone accusate, oltre ovviamente ai capi d’imputazione: da una parte sei cittadini congolesi, dall’altra due dipendenti del Pam, agenzia delle Nazioni Unite che ha la sua sede centrale proprio a Roma, così come tutto il comparto ‘food’ dell’Onu che comprende anche la Fao e l’Ifad, senza dimenticare l’importante polo logistico Pam di Brindisi. Il timore dell’esecutivo è che la costituzione di parte civile possa andare in contrasto con l’articolo XIII degli Accordi di Washington del 1951 che conferisce ai funzionari della Fao “immunità giurisdizionale di qualsiasi genere per le parole dette o scritte e per tutti gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni”. Costituirsi parte civile, quindi, potrebbe rappresentare una violazione di tale accordo.

Ed è proprio dal Pam e dalla Fao che sono arrivate pressioni affinché venisse garantita l’immunità per i propri dipendenti: diverse sono le missive inviate in questi due anni nelle quali è stato evidenziato il rischio che l’atteggiamento della Procura di Roma, incaricata delle indagini, possa “nuocere a una lunga e positiva tradizione di cooperazione e sostegno reciproco fra Fao, Pam e governo italiano”. Non è difficile immaginare che, oltre alle comunicazioni ufficiali, ci siano stati anche incontri tra i vertici governativi e quelli Onu. A tal proposito, martedì Ilfattoquotidiano.it ha chiesto al ministro Tajani un’intervista per avere chiarimenti su eventuali interlocuzioni con i rappresentanti delle Nazioni Unite, ma al momento in cui si scrive la Farnesina non ha dato la propria disponibilità.

Agli accordi internazionali si affiancano però anche questioni di opportunità che il governo avrà certamente valutato. Resta da capire in che modo le Nazioni Unite possano esercitare pressioni sull’esecutivo al fine di salvaguardare la posizione dei propri dipendenti e, di conseguenza, la propria immagine. Un raffreddamento dei rapporti diplomatici tra le parti, ad esempio, avrebbe delle implicazioni di carattere politico. L’Italia ospita le sedi del cosiddetto Polo romano delle Nazioni Unite (Fao, Pam e Ifad) e questo conferisce al Paese peso internazionale, tenendo conto che si sta parlando di uno dei sottosistemi più rilevanti per l’azione della cooperazione allo sviluppo del sistema Onu. Il Polo romano dispiega infatti oltre un terzo (35,2%) dell’intero ammontare di spese delle Nazioni Unite in Africa, secondo uno studio del Centro studi di politica internazionale (Cespi) risalente al 2014.

Inoltre, nel caso in cui si arrivasse a uno scontro aperto che non esclude il ritiro, anche parziale, di alcune agenzie dal territorio italiano, le implicazioni sarebbero anche di carattere economico. Secondo lo stesso studio, la presenza delle tre agenzie del Polo romano dell’Onu in territorio italiano garantisce al Paese un flusso di denaro in entrata da centinaia di milioni di dollari. Il primo indice di riferimento è quello relativo alle commesse vinte su tutti i contratti di procurement. A questo proposito, prendendo in esame i numeri del 2011, l’Italia ha versato come donatore complessivamente 304,7 milioni di dollari, mentre il sistema Italia ha ottenuto in commesse 423,3 milioni.

A questi benefici si aggiungono poi quelli relativi alla presenza di personale italiano nelle agenzie. Nel Polo romano questi rappresentano quasi un terzo del totale. In termini puramente economici, questo “si traduce in una stima grossolana e prudenziale di 100 milioni di dollari l’anno (utilizzando un compenso medio di 80mila dollari)”. A queste cifre si aggiungono quelle relative all’indotto, ossia alle spese che questi dipendenti sostengono su territorio italiano: “In base ai dati della Place to Place survey condotta dall’International Civil Service Commission (ICSC) nel 2010 – continua il report -, in media l’84,5% del reddito disponibile (in realtà l’indagine fa riferimento solamente ai professional) è speso nel Paese ospitante. La stima è di un apporto per l’economia italiana di 500 milioni di dollari spesi in un anno”.

C’è infine la voce relativa al turismo o, comunque, alle spese vive sostenute sul territorio italiano durante i brevi soggiorni dai visitatori e i partecipanti a meeting e conferenze organizzati a Roma dalle agenzie del Polo. A queste si aggiungono “una serie di opportunità e benefici di tipo immateriale o non immediatamente contabilizzati che rappresentano ugualmente un importante beneficio da valorizzare”, come “iniziative culturali e di sensibilizzazione, a carattere locale, nazionale, regionale e globale, lezioni e seminari universitari tenuti da esperti delle agenzie romane, campagne per la raccolta di fondi, concerti e altri eventi culturali. Un ultimo importante asset da valorizzare è rappresentato dai partenariati, come le esperienze di collaborazione con università italiane, l’Istat (in particolare per le attività di formazione statistica) e con altre realtà espressione della società civile”. Benefici, però, difficilmente quantificabili economicamente.