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Dalai Lama e la richiesta al bimbo di “succhiargli la lingua”: perché un “giudizio definitivo” sul suo gesto è impossibile

Un uomo anziano non più in sé, un gaffeur, o addirittura un pedofilo. Del Dalai Lama se ne dice da anni di tutti i colori. D’altronde, noto per il carattere scherzoso, Tenzin Gyatso non ha mancato in più occasioni di commettere qualche indelicatezza: nel 2019 l’uomo, che quest’anno compie 88 anni, suscitò un vespaio per aver dichiarato che se si fosse reincarnato come donna “avrebbe dovuto essere più attraente“. L’anno prima, commentando il problema dell’immigrazione dall’Africa, dichiarò che è meglio “mantenere l’Europa per gli europei”. L’ultimo scivolone risale a fine febbraio, quando durante una celebrazione, il leader buddista ha baciato un ragazzino sulle labbra e gli ha chiesto di “succhiargli la lingua. Il video della scena, diffuso online solo pochi giorni fa, è stato da molti definito “inappropriato”, “scandaloso” e “disgustoso”. Qualcuno è andato oltre. Repubblica ha intervistato Tenzin Peljor, un monaco che da anni denuncia gli abusi sessuali all’interno della comunità buddhista. Ma è davvero questo il caso? Chiedendo scusa al ragazzo e alla sua famiglia, nonché ai numerosi amici in tutto il mondo, lo staff del leader religioso ha giustificato l’accaduto ricordando come Tenzin Gyatso “ama prendere in giro le persone che incontra in modo innocente e giocoso”. Eppure lo sguardo attonito del bambino qualche dubbio lo solleva.

“Se la domanda è se il video prova che il Dalai Lama sia un pedofilo, allora immagino che per qualche giornalista la risposta potrebbe essere sì”, dice Robert Barnett, fondatore del Modern Tibetan Studies Program presso la Columbia University di New York. Sentito dal Fattoquotidiano.it definisce l’accusa “una speculazione totale” in mancanza di ulteriori prove. Il rischio – secondo il professore – è quello di creare “un clima di iperbolica avversione mediatica”. Secondo Barnett non è facile spiegare il gesto di Tenzin Gyatso dal momento che i tibetani hanno usanze diverse a seconda delle regioni, che variano persino di famiglia in famiglia. Ma, come evidenziato in rete da alcuni tibetani e studiosi, in alcune zone della regione autonoma cinese baciare i bambini sulle labbra viene considerata una normale espressione di affetto da parte dei più anziani, così come lo è pronunciare la frase tibetana “mangiami la lingua“. Barnett ammette sia difficile trovare una spiegazione definitiva, proprio per via della diversa percezione che ciascun nucleo familiare ha di quel comportamento. Ma la reazione della comunità tibetana sul web è stata generalmente di comprensione; segno di come il gesto – a parte qualche eccezione – non deve essere parso troppo strano a chi è immerso in quel particolare contesto culturale.

L’autorevole tibetologo ritiene inoltre necessario analizzare la dimensione storica del problema. Perché se da una parte l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale è in alcuni casi sincera, d’altra è il prodotto di una lunga storia di “denunce estremiste e fantasiose” contro il Dalai Lama. Una storia che coinvolge i primi missionari cattolici nella Cina imperiale. Non tutti: il gesuita Ippolito Desideri che visse a Lhasa all’inizio del XVIII secolo, parlava correntemente il tibetano, ed era rispettoso della religione buddhista e delle sue istituzioni. Ma gli evangelisti fondamentalisti protestanti sono noti per aver tentato campagne di proselitismo piuttosto aggressive negli anni ‘90. Nei loro volantini accusatori definivano il buddhismo “una forma di schiavitù spirituale e demoniaca”. Come ricorda Barnett in “Saving Tibet from Satan’s Grip: Present-day Missionary Activity in Tibet”, prima di invadere il Tibet nel 1903, furono i media e gli imperialisti britannici a diffondere discorsi di odio contro la figura del Dalai Lama. La pratica di spiccare false denunce ad hominem contro il capo del lamaismo tibetano è stata poi ripresa dalle autorità cinesi nel 1959, una volta conquistata la regione manu militari. O più precisamente nel 1962 quando, dopo tre anni di depistaggi, il governo cinese ammise che la fuga di Tenzin Gyatso in India era stata volontaria, non un rapimento. “Come per altre forme di pregiudizio radicato, a volte può essere difficile distinguere le preoccupazioni sincere (ma forse disinformate) di alcuni stranieri dalle accuse consolidate e cospirazioniste contro il buddhismo tibetano o il Dalai Lama,” spiega Barnett.

Senza contare il fattore politico: dal 2012 – per propria scelta – Tenzin Gyatso ricopre un ruolo esclusivamente religioso. Ma la sua figura viene ancora associata al movimento di resistenza contro l’assimilazione etnica portata avanti dal governo cinese in Tibet. E pertanto inserita all’interno di quella narrazione polarizzata che ormai da anni vede la Cina venire raccontata in chiave totalmente negativa o parossisticamente positiva. Per non compromettere gli affari con la seconda economia mondiale, sono sempre meno i paesi ad accogliere pubblicamente il Dalai Lama, che Pechino considera tutt’oggi un secessionista.

Aggiornato da redazione web il 15 aprile 2023 alle 14.59