C’è tanta dolente ed estatica serie B di una volta in questo interessante Delta di Michele Vannucci. Come in tutta la sacrosanta produzione apolitica di Groenlandia di Matteo Rovere e Sydney Sibilia il cinema è un manufatto di genere che si modella a seconda dei target di riferimento commerciale. Delta, ad esempio, non è l’epica avventura de Il primo re o le sgargianti chincaglierie alla L’incredibile storia dell’isola delle Rose, ma si rifà ad un’idea di autorialità, senza eccessi di budget o troppi fronzoli formali, compressa nell’intuizione di una ieraticità per l’immagine naturalistica che tende a veicolare il senso dell’inevitabile tragedia.
Quando ci scappa il morto, anzi ce ne scappano pure di più, e tutti autoctoni, prima si rivolteranno i locali e poi Osso supererà ogni remora morale per farsi giustizia da sé. Delta diventa così l’incubatore di una violenza inusitata, esercitata soprattutto da chi non te l’aspetti (vedi la suggestione manifesta alla Cane di paglia o Un borghese piccolo piccolo), che viene addirittura protratta in una specie di ininterrotto sottofinale a due (Lo Cascio/Borghi) che è oltretutto il pezzo più pregiato dell’intera opera. Già perché Delta è un film che sembra vivere di un sacro fuoco estetico peculiare quando abbandona del tutto i dialoghi, le sembianze del racconto da sceneggiatura Mibact, e si lascia fluttuare nelle viscere dell’istintività dei protagonisti. Qualche azzimato recensore potrebbe pure farci una polemica progressista sulle ronde dei cittadini (“questa è casa nostra”) e lo sfruttamento dei poveri stranieri (peraltro cattivissimi); quando invece lo scontro, il motore dialettico di questo cinema è più sinceramente aperto, sanguinante, poco filosofico e molto alla Hill de I Guerrieri della palude silenziosa. Insomma, non si rimane indifferenti alla violenza e si parteggia di brutto (noi per Osso). In alcuni momenti della fuga di Elia sembrano riecheggiare le vicende criminali di cronaca del caso Igor il russo.