Cinema

La Mamain e la putain, torna in sala il film di Jean Eustache per i cultori della Nouvelle Vague

Dopo 50 anni il celebre, e invisibile film, di un talento sfuggente, puntiglioso e autolesionista come Jean Eustache potrà essere visto per qualche giorno su grande schermo e non più solo sugli splendidi vhs

Toh! C’è La Mamain e la putain in sala. Dopo 50 anni il celebre, e invisibile film, di un talento sfuggente, puntiglioso e autolesionista come Jean Eustache potrà essere visto per qualche giorno su grande schermo e non più solo sugli splendidi vhs. Sarà una questione di multiverso, visto che lo distribuisce I wonder che ha fatto la stessa cosa con il trionfatore degli Oscar 2023 Everything everywhere all at once, ma il fatto che Eustache risbuchi dopo 50 anni – il film è del 1973 – riguarda anche la possibilità di capire volontariamente cosa si potesse girare all’epoca in forma semisperimentale.

In pratica La Mamain e la putain è un film autobiografico sulla confusione sentimentale impetuosa e perennemente fuori fuoco del suo autore che, come fece Truffaut, recupera nella surreale performatività di Jean-Pierre Leaud un alter ego inafferrabile, tra il sublime e il ridicolo. Triangolo amoroso reiterato quello del film con Alexandre/Leaud un dropout bohemienne che trascorre le sue giornate sulla rive gauche tra un caffè, una copia di Le Monde, momenti quasi warholiani a petto nudo sul letto guardando nel vuoto. Mantenuto, ma senza malizia, dalla più matura di lui proprietaria di un negozietto, vive una “relazione aperta”. Tanto che tra loro due il ragazzo inserisce, cercandola con pervicacia, Veronika, un’infermiera anch’essa squattrinata che diventerà senza spettacolarità o climax eccellenti, vertice di un rapporto complesso “che oscilla tra la tenerezza, la gelosia e la disperazione”.

La Mamain et la putain è il cult per antonomasia dei nouvelle vaguisti incalliti, ma anche esempio di una certa laica disinvoltura politico espressiva (nel film si tratta anche l’aborto e si parla con riferimenti sessuali espliciti) anche se tutto, esteticamente, rimane sui binari di un bianco e nero abbacinante, un suono in presa diretta invadente, e il ripetersi di una dialogheria trattenuta e insistita su amore e passione, campo e controcampo, tra i tavolini di un bistrot, su splendidi improvvisi marciapiedi sgombri di folla. “Rispecchia la vita che conducevo al tempo delle riprese e, a tratti, combaciava con essa in maniera tragica”, spiegò Eustache. Sull’eccezionale durata di oltre tre ore e mezza disse: “Ovviamente, su quasi quattro ore di film è possibile distinguere i momenti drammatici da quelli in cui non accade nulla, i quali sono più simili alla vita reale. Però direi che quattro ore sono la durata minima di un film e a ogni taglio che ho dovuto fare per ridurlo a tre ore e mezza ho sofferto molto. La potenza di quell’ambientazione chiusa è direttamente proporzionale alla durata del film”. Eustache morì suicida a 43 anni nel 1981. A Pessac, dove nacque, a sud ovest di Bourdeaux una sala cinematografica porta il suo nome.