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Terremoto, il debito dei Paesi del Sud del mondo non interessa più: l’occidente potrebbe far tanto

Quando un terremoto di magnitudo 7.8 della scala Richter ha squarciato intere città di Turchia, Kurdistan e Siria, con un bilancio – ancora purtroppo provvisorio – di quasi 20mila morti e più di 60mila feriti ero in Nepal, Paese in cui le ferite del terremoto del 2015 sono ancora visibili.

Nel Paese himalayano il bilancio parlava di circa 10mila morti, 600mila case distrutte, 3 milioni di persone coinvolte dal sisma. Si attivò la macchina degli aiuti: associazioni di varia natura e, soprattutto, tantissimi “Sig. Nessuno” e “Sig.ra Nessuno” cominciarono a tessere le fila della solidarietà per aiutare una popolazione devastata dall’evento sismico. La generosità della gente comune in occasione di simili cataclismi è impressionante.

Chi invece dispone di maggiori risorse spesso non risponde all’appello. È quello che successe nel 2015 in Nepal. La campagna internazionale “Jubilee Network” che riuniva 75 associazioni e ben quattrocento comunità religiose in ogni angolo del pianeta chiese al Fondo Monetario Internazionale (Fmi) di condonare almeno in parte il debito estero del Nepal, così da permettere a Kathmandu di utilizzare i nuovi spazi di bilancio per affrontare il post-terremoto.

La risposta del Fmi? Giustificandosi sulla base di regolamenti interni negò questa possibilità. Era più importante tenere il punto di regole contabili che tendere la mano al governo di un Paese che stava vivendo una tragedia. All’epoca il Fmi, insieme a Banca Mondiale e Banca dello Sviluppo asiatico detenevano 3 miliardi di dollari di debito estero del Nepal.

Il debito estero dei Paesi del Sud del mondo è uscito dalle agende dei Paesi occidentali. Non siamo più ai tempi in cui Bono degli U2 faceva campagna a livello internazionale e al Festival di Sanremo 2000 Jovanotti cantava Cancella il debito. Il debito dei Paesi del Sud del mondo sembra non interessare più, eppure continua a essere un meccanismo di strangolamento da parte delle istituzioni finanziarie internazionali.

Il meccanismo attraverso cui si impongono i famigerati “piani di aggiustamento” che condannano i popoli alle sofferenze dell’austerità, dei tagli, dei licenziamenti e consegna nelle mani di un’oligarchia sempre più ristretta più denaro e più potere. Il debito estero, insomma, continua a essere uno strumento attraverso cui si perpetua il neo-colonialismo dei Paesi del centro del sistema capitalista e che soggioga i popoli del Sud a vantaggio esclusivo di ristrette cricche di dirigenti e decisori iper-corrotti.

Le istituzioni internazionali e i governi occidentali possono fare tanto per dare sostegno alle popolazioni di Turchia, Kurdistan e Siria devastate dal terremoto. Fino a oggi, però, poco o nulla si vede. Solo qualche goccia di carità. E, per di più, selettiva e discriminatoria. Che arriva, ad esempio, nella Turchia in cui Recep Tayyip Erdogan nemmeno di fronte a questa catastrofe ha allentato le maglie repressive e che hanno colpito sia chi sui social protestava contro i ritardi nei soccorsi e la speculazione edilizia, causa delle dimensioni della tragedia – chiusura di Twitter e Tiktok e almeno 18 arresti – e continua a impedire a tante organizzazioni sociali e politiche quella minima agibilità che oggi permetterebbe di rafforzare gli aiuti. Ma che, invece, quasi non arriva in Siria: lì tutto è più complicato a causa delle sanzioni internazionali imposte da Usa e Ue. Sanzioni che, come mostra la storia recente dell’Iraq, portano morte e sofferenza per i popoli lasciando invece saldamente al potere quei governanti che si dice di voler indebolire e abbattere attraverso strumenti di guerra economica.

Sanzioni che sono un obbrobrio in tempi “normali”, ma che diventano ancor più disumane in tempi eccezionali come quelli che viviamo. Se si vuole davvero aiutare la popolazione siriana vittima del terremoto bisogna immediatamente eliminare le sanzioni economiche e finanziarie che colpiscono Damasco. Qui non è in gioco il futuro di Assad e del suo regime, ma quello degli uomini e delle donne di Siria. E la mano spietata dell’Occidente non torcerà un baffo a chi governa a Damasco, ma può fare tanto male a schiere di innocenti che hanno la sola “colpa” di esser nate nella parte sbagliata del mondo.