Salute

Lettera a un vecchio (da parte di un vecchio): “Non siamo inattivi o inutili. Vanno cambiati i criteri di valutazione degli invividui”

L'ultimo libro di Vittorino Andreoli, psichiatra e saggista, è un messaggio di grande vitalità rivolto ai vecchi. Li chiama proprio così, senza giri di parole, arricchendo il termine di numerosi significati positivi contro l’attuale tendenza culturale

“I vecchi non hanno paura della morte, hanno paura di sentirsi soli e abbandonati!”. Lo dice forte e chiaro Vittorino Andreoli, psichiatra e saggista, nel suo libro appena pubblicato Lettera a un vecchio (da parte di un vecchio), edizioni Solferino. È un messaggio di grande vitalità rivolto ai vecchi. Li chiama proprio così, senza giri di parole, arricchendo il termine di numerosi significati positivi contro l’attuale tendenza culturale che invece edulcora, anestetizza, con le parole più comunemente utilizzate, la reale condizione in cui versano molti anziani. “Bisognerebbe avere il coraggio di farsi un giro nelle Rsa, che sono luoghi molto tristi”, spiega Andreoli. “Un dato emblematico si è visto durante il primo periodo pandemico, quando il personale sanitario ha dovuto fare scelte drammatiche, come il decidere a chi dare un respiratore, se a un giovane o a un vecchio. Ma la questione è posta male: una società civile dovrebbe avere strumenti salvavita per tutti”.

Professor Andreoli, i vecchi sono ormai un peso sociale?
“Purtroppo, sono considerati così. Per la prima volta nella storia antropologica dell’uomo, siamo passati da una speranza di vita di circa 45 anni, almeno fino alla Seconda guerra mondiale, a quella attuale di 80-82-anni per gli uomini e 85 per le donne. Di fronte a questo fenomeno siamo ancora impreparati, perché conosciamo ancora poco il periodo della vecchiaia”.

Che lei invita a guardare con uno sguardo positivo.
“La buona notizia è che la vecchiaia è l’ultimo capitolo del libro della vita in cui emergono diverse opportunità che bisogna sapere cogliere. A partire dal fatto che non devo più andare a lavorare e a timbrare un cartellino, non devo dimostrare più niente a nessuno. Mi libero dal peso della società competitiva e della performance”.

Forse è proprio questo il nodo cruciale. Dopo l’attività lavorativa, il pensionato/vecchio si chiede: “E ora che faccio?”.
“Se alla società – e di rimando ai vecchi stessi – queste persone appaiono inattive o inutili è perché le osservano con una prospettiva che è… vecchia!”.

Proviamo allora a usare un nuovo punto di vista.
“Nella mia lettera invito ad amare la vecchiaia, a renderci conto che non è un momento di perdita, di declino, di degenerazione delle nostre funzioni psicofisiche, ma rappresenta una diversa opportunità per apprezzare la vita”.

A certe condizioni.
“Uno dei nemici di questa prospettiva è il giovanilismo, che è una patologia della vecchiaia. È la persona vecchia che non vuole accettare di essere tale, che per esempio indossa i jeans e vuole fare credere di essere ancora sessualmente attiva come un ragazzo”.

C’è invece uno spazio più specifico per la sessualità nella vecchiaia.
“Dobbiamo considerare l’amore come espressione di tutto il corpo: un abbraccio è un gesto d’amore, come lo è il tenersi la mano, la carezza, il bacio e qualsiasi altro gioco che riporti all’eros, anche se non giunge a una penetrazione degli organi primari della sessualità”.

Il filo conduttore della sua lettera è che la vita, in tutte le sue dimensioni – biologica, psichica e sociale – è un insieme di relazioni da costruire e alimentare. Il cui carburante principale è proprio l’amore.
“È così. I vecchi, anche se avvertono più vicino il tempo della propria fine, hanno una grande voglia di vivere. Sviluppano desideri che non sono ‘denaro-dipendenti’. Sarebbero quindi disposti ad avere ruoli sociali, a sentirsi utili senza essere preoccupati del denaro o di fare carriera. E siccome c’è troppa cattiveria in giro, la società avrebbe bisogno di mettere in circolazione la vera ricchezza della specie umana, l’affettività. I vecchi possono contribuire a condividerla, rendendosi disponibili a donarsi. Tutto questo non solo aiuta gli altri a vivere meglio, ma è fonte di gratificazione anche per chi si offre, in particolare ai giovani, perché noi vecchi amiamo le nuove generazioni. Mi chiedo, allora, è possibile che la società non possa considerare utili queste persone? Ecco perché vanno cambiati i criteri dominanti di valutazione degli individui”.

Magari provando, come lei scrive, a sfatare il mito del decadimento cerebrale in età avanzata.
“Quando mi sono iscritto alla facoltà di medicina dell’università di Padova, le cellule cerebrali, i neuroni, erano chiamate cellule perenni che, a differenza delle cellule degli altri organi, non potevano rigenerarsi. Il significato di ‘perenni’ implica anche che, se alcuni neuroni muoiono, si perde la funzione che svolgevano. Sono passati sessant’anni da quel tempo e oggi sappiamo che i neuroni si rigenerano nel corso della vita e che questa ricrescita è attivissima nel vecchio. È una bella notizia, poiché finalmente si può dire che anche noi vecchi abbiamo un cervello che si ‘rinnova’”.

Un altro grande equivoco è considerare la vecchiaia come una malattia.
“La vecchiaia non è una malattia. È una fase dell’esistenza in cui compaiono ovviamente delle patologie. Un’idea meccanicistica della medicina ci porta però a considerare di ciascuna realtà la parte rotta, mentre non ci rendiamo conto di quanto di buono, di bene, contenga ancora”.

Ecco perché lei ha coniato un nuovo termine, il bendessere.
“Bisogna distinguere due tipi di percezione nell’idea di salute-malattia: la prima riguarda un organo malato, la seconda un ‘essere’ che ha una sua specificità, quella di sentirsi bene. Della malattia si occupa la medicina, del bene-essere una disciplina che ho definito del bendessere. È allora chiaro che sono due i campi su cui intervenire: quello clinico, ma anche quello del bendessere che si pone il problema di attivare e promuovere il senso globale della persona. Ciò equivale a occuparsi di tutto ciò che è funzionale, nonostante la malattia. Iniziando a offrire – un po’ tutti e più semplicemente – un sorriso, una carezza alle persone”.

Nella solitudine del vecchio, lei sottolinea che può esserci una dimensione positiva.
“La solitudine è positiva, prima di tutto se il vecchio è occupato in attività utili. In questa situazione, stare da soli diventa un viaggio in se stessi, una ricerca nella propria memoria fatta di relazioni, persone che sono o sono state importanti”.

Una ricerca – lei scrive – che può sfociare anche in quella di Dio.
Non è detto che quando uno è vecchio, se prima era scettico, arrivi a credere automaticamente in Dio. Ma in questo viaggio nei propri sentimenti e desideri affettivi è possibile arrivare a domandarsi se non c’è qualcuno che abbia voluto un mondo tutto sommato bellissimo, anche se riserva cose terribili. Esistono di fatto i credenti, i non credenti che sono aperti a questo mistero e gli atei. Io apprezzo molto i secondi, e nonostante la scienza abbia messo l’essere umano di fronte alla scelta tra il caos e Dio, pur con tanti dubbi, io se proprio devo inginocchiarmi, scelgo Dio”.