Mafie

Con l’arresto di Messina Denaro c’è chi tifa per il ‘disarmo’ dell’antimafia: ma la sfida è apertissima

Chi usa l’arresto di Matteo Messina Denaro per sostenere il disarmo (unilaterale) dell’antimafia, sta facendo un pessimo servizio alla democrazia (nel migliore dei casi). La sfida invece è apertissima e proverò ad argomentarlo tra poco. Dopo una premessa necessaria di questi tempi.

Coloro che propongono il “disarmo”, come avevo già scritto prima dell’arresto di Messina Denaro, sostengono che l’attrezzatura antimafia, quella sviluppatasi in particolare a partire dal 1982, sia gravemente viziata da un tasso di ferocia incompatibile con uno Stato di diritto, che questo tasso esorbitante di ferocia sia stato eccezionalmente tollerabile dovendo lo Stato reagire a una inaudita e del tutto stra-ordinaria violenza della mafia e segnatamente di Cosa Nostra e, ancor più specificatamente, di quella Cosa Nostra inopinatamente comandata da corleonesi stragisti, ma che sconfitti questi ultimi, oggi si possa finalmente appendere quella ferocia in qualche teca e riportare l’attrezzatura dello Stato all’interno di più civili perimetri.

Si dovrebbero pertanto addomesticare, se non abrogare, gli strumenti che hanno a che fare con le indagini (l’uso delle intercettazioni a partire dai così detti reati spia, per esempio), con la costruzione dei processi (Dia, Dna, Dda), con l’aggressione delle ricchezze illecite (misure di prevenzione patrimoniali, interdittive prefettizie), con il contrasto al condizionamento delle Amministrazioni Pubbliche (scioglimento dei Comuni), con i collaboratori di giustizia (che sarebbero sistematicamente pilotati strumentalmente da Pm a caccia di gloria mediatica), con i testimoni di giustizia (ritenuti sostanzialmente irrilevanti per le indagini), con il regime carcerario specifico (4 bis e 41 bis), con il contrasto all’accordo tra mafia e politica nel momento delle elezioni (416 ter).

Fino al mitico 416 bis e cioè il cuore stesso di tutto l’armamentario, visto che considerare reato la mera appartenenza a una associazione criminale non è mai stato digerito dai palati fini, cultori del diritto-civilissimo. L’arresto di Messina Denaro era l’evento atteso da molti di costoro per dare fiato alle trombe: game over!

Io mi oppongo a questa lettura e credo che bisognerebbe smettere di insinuare che questi strumenti siano stati la risposta eccessiva a una stagione eccezionale (lo stragismo di Cosa Nostra), piuttosto bisognerebbe riconoscere che questi strumenti siano stati il frutto di una sapienza dolorosamente maturata in decenni difficili, segnati dal negazionismo istituzionale, e che semmai la stagione dei così detti omicidi eccellenti e poi la stagione stragista hanno fatto saltare gli argini culturali e politici che avevano fino a quel momento impedito la loro adozione. E chissà quanto di quegli “argini” fosse retto da quei poteri occulti, anti-democratici, che hanno flirtato per decenni con le mafie in funzione conservativa.

Mi oppongo quindi anche alla lettura che fa dell’arresto di Messina Denaro il “Game Over” della mafia, come fortunatamente in molti si sono incaricati di spiegare in questi giorni. Con l’arresto di Messina Denaro non è finita la mafia, nemmeno Cosa Nostra, ma è stato arrestato l’ultimo protagonista della stagione stragista e quindi c’è qualche (tenue) speranza di scoprire qualcosa di più su quegli anni maledetti, che non hanno ancora finito di produrre il loro effetti (1989-1994).

E così arriviamo alla sfida che io credo apertissima. Intanto le organizzazioni mafiose italiane e straniere sono purtroppo vive e vegete e hanno una impressionante capacità di arricchirsi illecitamente cogliendo tutte le nuove opportunità del mercato, come dimostra anche l’ultima semestrale della Dia, e di fare paura ottenendo soggezione, come alcune situazioni peculiari ci ricordano quotidianamente (da Ostia a Foggia, da Buccinasco a Vibo Valentia passando per Volpiano).

In questo senso va sicuramente salutato come segnale estremamente positivo il protocollo di collaborazione stipulato recentemente tra il Politecnico di Torino, guidato dal prof. Saracco e la Dia, per sviluppare tecnologie che consentano di aggredire le organizzazioni criminali nei meandri più reconditi ed evoluti della dimensione digitale. Un protocollo che dimostra quanto quell’armamentario antimafia (di cui la Dia è senz’altro fiore all’occhiello) sia invero il presupposto necessario per cogliere le trasformazioni delle mafie e adeguare la capacità di “tiro” dello Stato.

Ma per me la sfida è apertissima soprattutto per un altro motivo: penso che bisognerebbe chiedersi “dove” stia oggi il 416 bis. Quello mafioso è un metodo che arriva da lontano e non è patrimonio esclusivo delle organizzazioni mafiose storicamente date. Il metodo mafioso è proprio di tutti quei sistemi di potere che perseguano l’arricchimento illecito ottenendo ubbidienza in forza della capacità intimidatoria generata dalla loro presenza nel “paesaggio” sociale.

Il tutto condito da dosi di segretezza, che infatti è considerata di per se stessa proibita dall’articolo 18 della nostra Costituzione, con buona pace della povera Tina Anselmi, da sempre associata a una legge farsa, che altri scrissero perché nulla cambiasse in questo Paese. Nemmeno dopo la scoperta degli elenchi (parziali) della P2 e questa non è un’altra storia.