Cinema

She said, il #MeToo arriva al cinema con la storia dell’inchiesta del New York Times che inchiodò Harvey Weinstein

Il film di Maria Schneider (Unorthodox) è lo Spotlight o, per chi ha qualche capello bianco in più, il Tutto gli uomini (anzi le donne) del presidente, aggiornato agli abusi sessuali dell'ex produttore poi condannato per stupro

Il #MeToo arriva al cinema. She said di Maria Schneider (Unorthodox) è lo Spotlight o, per chi ha qualche capello bianco in più, il Tutto gli uomini (anzi le donne) del presidente, aggiornato agli abusi sessuali di Harvey Weinstein. Targato Universal e Anapurna, in anteprima italiana al Torino Film Festival (in sala da noi si dice a gennaio 2023), She said andrebbe annoverato in un nuovo sottogenere: il giornalismo d’inchiesta al telefono. Le due giornaliste del New York Times, Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Kazan), che nel 2017 dopo un alacre, certosino, coraggioso lavoro di scavo, scoprirono sia le decine di casi (80?) di molestie e violenze perpetrate dal mogul della Miramax ai danni di attrici e collaboratrici, sia gli abbondanti e copiosi accordi di risarcimento (vi paghiamo ma tacete sulla fame ossessiva di sesso di Harvey), vivono letteralmente attaccate allo smartphone, un po’ come la gag di Franca Valeri in Tanto piacere. Uno slittamento audiovisivo nel quadro e di comprensione del testo che denota l’ovvio realismo della ricostruzione storica ma anche la faticosa punteggiatura drammaturgica del racconto che, infatti, ha come una linea sì tesa ma molto piatta.

Linea che ondula quando entrano in scena in carne ed ossa e non più al telefono spie reali, gole profonde, avvocati apparentemente accondiscendenti, e soprattutto le testimoni degli assalti inesausti e insistenti di Weinstein (l’attrice Ashley Judd, ad esempio, in collegamento streaming con la Kantor interpreta sé stessa; Gwyneth Paltrow sembra appaia da un momento all’altro ma nisba). L’andamento, insomma, è quello da rullo di inchiesta liberal e idealista, del minare le fondamenta dell’albero marcio (attendere la confessione clamorosa di una vittima o farle parlare insieme in modo che l’unione faccia la forza) finché non cade. Cosa che puntualmente accade mostrando sia che l’ex produttore, vincitore di diversi Oscar, sapeva oliare e corrompere perfino procuratori distrettuali, sia che il castello del sopruso di genere, uomo su donna, in senso ampio, nel mondo del lavoro capitalistico contemporaneo, con l’inchiesta del NYT si è scalfito di qualche millimetro. E proprio come il #MeToo ha sollevato una pezzuola per poi riappoggiarla dov’era prima, She said ripropone lo stesso schema: lo spinto manicheismo dell’esercito di buoni contro il mostro è come se schiacciasse la redazione del New York Times fino a farla diventare un convento di frati e orsoline dove vige un’etica intonsa fatta tutta di addormentate tazze di tè appoggiate di fianco agli schermi dei pc.

Inoltre, ça va sans dire, se prima erano le donne a badare il bimbo a casa mentre l’uomo salvava il mondo al lavoro, ora è il contrario, con il risultato identico a prima ovvero le quattro battute e i primi piani sfuocati o di profilo sono per gli anonimi babbi che scossano marsupi e carrozzine come muti ossessi. Intendiamoci, va bene così, per carità. Ma oltre la freddezza generale della messa in scena (le inquadrature larghe in esterno per mostrare la maestosità della sede tutta a vetri del NYT è da asilo nido) in She said c’è ben poco. Si salva quel paradossale risveglio dell’autoconsapevolezza nelle vittime femminili (il blocco di Samantha Morton è da antologia per come lo recita lei, non per come è girato), la grinta della Mulligan (dopo Promising young woman sembra che da un momento all’altro possa farti fuori a cazzotti) e le smorfiette con occhioni azzurri spalancati della Kazan che, demonietta, per riuscire ad ottenere informazioni cruciali per l’inchiesta con un funzionario della Miramax si infila due stivaloni aggressivi al posto di caste ballerine, mentre la regista Schneider impone allo spettatore di non dover accorgersene.