Società

Meloni ‘americanizza’ pure il sovranismo: il povero è di serie B, merita solo chi riesce

di Adriano Tedde *

Dietro a Giorgia Meloni si cela un equivoco o, per pensar male degli altri, un vero e proprio bluff ideologico. Il sovranismo, tanto desiderato da molti elettori come risposta alle profonde ferite economiche, sociali e culturali causate dalla globalizzazione, altro non è che una chimera che nasconde l’inarrestabile americanizzazione del nostro pensiero. Mentre i media si appassionano al banale dibattito sul linguaggio di genere, Fratelli d’Italia importa nel nostro paese il peggio del pensiero d’oltreoceano nel silenzio generale. Mi riferisco alle idee emerse dal dibattito sulla povertà in campagna elettorale, ribadite dalla scelta spudorata di associare la parola merito al ministero dell’Istruzione.

Gli attacchi al reddito di cittadinanza sono intrisi di idee meritocratiche che hanno origine nella mitologia americana della terra promessa. L’essere poveri in una terra che promette felicità a tutti è un’offesa contro il senso comune. Il povero perciò, nel pensiero dominante americano, è tradizionalmente un “alieno”, un diverso, uno strano, cioè un essere indegno di far parte della grande famiglia americana.

La povertà è stata dunque a lungo intesa dalla storiografia americana come un’aberrazione comprensibile solo in termini di pigrizia e inadeguatezza di alcuni immigrati ad abbracciare il dinamismo e l’operosità tipiche della nazione. Oggi, di fronte a livelli di ineguaglianza insostenibili, la storiella della terra promessa fa acqua da tutte le parti e in molti si domandano come sia possibile che anche la classe media dei buoni americani sia finita nelle maglie della povertà.

Un’opera su tutte, White Trash di Nancy Isenberg (2016), ha riletto la storia americana osservando la povertà come un fenomeno permanente su cui gli Stati Uniti hanno fondato la loro forza economica. Ma fuori dall’accademia, il pensiero dominante per ora resta ancorato al mito del povero indegno.

La narrazione americana, dunque, ben si addice al nazionalismo della Meloni che con le accuse ai furbetti del reddito fa eco al disprezzo Usa verso chi oggi non ha disponibilità materiali. In un’economia che si è finalmente aperta al mercato del lavoro mobile essere disoccupati e non avere un soldo in tasca è una vergogna che si spiega soltanto con la pigrizia. Smantellare il reddito di cittadinanza dunque è doveroso, non solo per punire gli indegni, ma anche per non scoraggiare chi già fa il suo dovere, piegando la schiena senza lamentarsi per il bene suo e di tutta la patria. Il nostro sovranismo, dunque, schifa non solo gli immigrati (quelli della “pacchia” detestata da Salvini), ma anche gli italiani di serie B. Ma come fare per individuare questi esseri indegni tra i concittadini? La risposta è nel sistema del Merito.

Il termine meritocrazia fu coniato con accezione negativa nel 1958 dal sociologo britannico Michael Young, che temeva le ingiustizie legate all’avvento della società meritocratica. La meritocrazia si fonda sulla convinzione che guadagno e posizione sociale siano il giusto premio per il merito (inteso spesso come duro lavoro) e il talento (la capacità di fare le cose meglio di ogni altro). Le statistiche dimostrano però come questo premio vada sempre alle stesse persone, ossia ai figli di famiglie agiate che ereditano fortune e privilegi, cioè i “meriti” dei loro genitori, né più e né meno come succedeva con l’aristocrazia, sistema al quale la meritocrazia si opporrebbe. La meritocrazia però, a differenza dell’aristocrazia, è in grado di farci sopportare l’ineguaglianza, ammantandosi di falsa giustizia. Il culto della meritocrazia negli Usa è alla base delle gigantesche differenze sociali che stanno erodendo la nazione.

La lettura più utile su questo tema è il libro di Michael Sandel, La tirannia del merito (2021), citato su queste pagine da Francescomaria Tedesco in un post sui concetti di merito e meritocrazia. Sandel, filosofo di Harvard, sostiene che per mettere rimedio all’ineguaglianza americana sia necessario ridare dignità ai lavori più umili (casualmente anche quelli più utili in tempo di pandemia) e ripensare l’istruzione. L’autore dedica molte pagine al ruolo sociale che le università hanno assunto in America. Oltre ai guadagni stellari, il settore dell’istruzione presiede al sistema di ordinamento in classi della società americana. L’assegnazione di ambitissime lauree ai cui corsi sono ammessi pochi iscritti determina la collocazione sociale e la ricchezza futura degli studenti ritenuti meritevoli. Anche se il libro si concentra soprattutto sull’istruzione terziaria, Sandel stesso ricorda che il discorso si può estendere a quelle primaria e secondaria.

Il mio timore è che la creazione del Ministero dell’Istruzione e Merito in Italia sia un’eco del sistema Usa descritto da Sandel, foriero di pericolose divisioni sociali.

Il bluff di Giorgia Meloni pertanto consiste nello sfruttare sentimenti nazionalistici – o patriottici nel migliore dei casi – per cementificare quei valori tanto cari non a noi, ma agli americani, sui quali si fonda il neoliberismo globale, contro il quale la stessa neo Presidente del Consiglio si scaglia quando si tratta di arringare le folle contro Soros. La triste realtà è che, nonostante il mandato contrario degli elettori, l’Italia prosegue sul percorso avviato con le privatizzazioni di trent’anni fa, in un processo di americanizzazione che è andato ben oltre i costumi e i consumi, e che ora riguarda anche l’economia e la tenuta sociale.

Da molti anni vivo in Australia, paese iperneoliberista, e ormai dovrei essere abituato a certe idee. Ma non riesco a darmi pace per la piega che l’Italia sta prendendo. Le scuole qui riflettono una lampante segregazione sociale che premia i “dotati e talentuosi” (gifted and talented) con una serie di istituti privati, proibitivi per le famiglie medie, e alcune scuole pubbliche che adottano programmi diversi da quello generale.

Una delle cose di cui vado fiero quando parlo dell’Italia da queste parti è proprio il sistema educativo che, almeno in principio, non fa figli e figliastri, ma mette tutti dentro la stessa aula. Chissà se potrò continuare a farlo anche dopo il termine del governo Meloni. Ma se davvero anche noi italiani alla fine dovremo adeguarci alla tirannia del merito, qualcuno può spiegarmi come si sono meritati un ministero personaggi come Santanché e Calderoli?

* ricercatore a Perth, Australia