Musica

Gianluca Grignani: “Non dipendo dall’alcol né dal gioco, ogni tanto esploro. Fedez è l’unico che potrebbe fare il premier: paraculo e diverso da me, ma mi fiderei”

Il Mei quest’anno consegnerà al cantautore la Targa Mei speciale per il 25ennale de La Fabbrica di Plastica che l’artista eseguirà interamente dal vivo il 16 ottobre al Fabrique di Milano. Sabato primo ottobre, l’artista si esibirà a Faenza, sul palco del Mei che ha premiato il suo disco come “uno dei migliori esempi di rock italiano alternativo, fuori dagli schemi tradizionali del pop italiano dell’epoca”. Grignani si racconta a FQMagazine in una lunga intervista

“Ricordo le notti chiuso in studio. Solo, nel buio mi dicevo: Gianluca, guarda che se fai questo disco rischi di non fare più questo lavoro”: lo racconta come se fosse ieri e invece sono passati 25 anni da “La Fabbrica di Plastica”. Il Mei quest’anno consegnerà a Gianluca Grignani la Targa Mei speciale per il 25ennale del disco che l’artista eseguirà interamente dal vivo il 16 ottobre al Fabrique di Milano. Sabato primo ottobre, l’artista si esibirà a Faenza, sul palco del Mei che ha premiato il suo disco come “uno dei migliori esempi di rock italiano alternativo, fuori dagli schemi tradizionali del pop italiano dell’epoca”. “A quei tempi ho spiazzato tutti, in Italia nessuno si sarebbe permesso di fare un album del genere”, racconta il cantautore milanese. “C’erano dei tabù, la musica doveva essere fatta in una certa maniera e io ho fatto quel disco per romperli, ero stufo. Mi sono trovato un muro addosso. C’è stato un atteggiamento difficile da parte di tutti, anche da parte dei miei colleghi. Ricordo un chitarrista che non voleva stare in studio con me, mi prendeva in giro diceva che ero matto e che non sapevo suonare perché ero mancino. Solo Dalla se ne è accorto che il mio modo di suonare è solo mio. So io la fatica che ho fatto per imparare a suonare con la destra. Ecco perché La mia storia tra le dita è tutta in levare. La mia musica all’inizio era ritmicamente in levare perché facevo fatica, dovevo trasformare ciò che avevo nella testa e ho avuto subito un successo tale che capisco che potevo essere fastidioso, ma per fortuna sono ancora qui. Le persone che mi seguivano già allora, sapevano prima di me chi ero”.

Quanto l’è costato andare dritto per la sua strada?
Sembrava all’epoca che la pagassi e poi l’ho pagata davvero ma gli altri la pagheranno di più perché io sono in evoluzione costante, in divenire. Adesso sono un cowboy, conosco la vita meglio di molti altri nel mio ambiente. Quel disco avrebbe ucciso chiunque. E invece a me ha salvato vita. Ero scappato in Sud America dopo un momento assurdo, è stato il delirio, erano tutti fenomeni sulla mia pelle. Avevano tutti un interesse, le persone intorno volevano ottenere tutti qualcosa. Non avevo nessuno che mi aiutasse prima che le cose iniziassero a girare in una certa maniera.
Quel disco ha segnato una significativa rivoluzione per la scena.
La rivoluzione non si fa, accade. Sono rivoluzionario perché continuo ad esserlo, fin da piccolo sono così. Sono rivoluzionario ma umile, ho scoperto di riuscire a pensare più agli altri che a me stesso tanto da dovermelo scrivere addosso (mostra l’avambraccio con su tatuato: ricordati di volerti bene). Prima, pensavo di dover morire e di poter essere compreso solo dopo la mia morte e invece è successo che ho preso anche dei premi letterari per le mie canzoni. L’ultimo, il Federiciano, mi ha scioccato, non me lo aspettavo, me l’ha consegnato il figlio di Quasimodo”.
Torniamo a “Fabbrica”, da dove nasce quella visione, compreso l’omaggio a Kubrick nel video?
“Fabbrica è stato un momento di grande ispirazione, avevo bisogno di gridare come un bambino che non conosce le parole. Ma non cavalco ciò che ti fa vibrare le corde, potrei farlo, ma ognuno deve vederci ciò che vuole. Io ho gridato. Collocare la propria visione è da cofanetto. Roger Waters non parla mai di The Wall, Gilmour lo fa perché non l’ha scritto lui, è però un grande chitarrista”.
Cosa prova, oggi, per quel ragazzo che era?
Non lo vedo più ma in realtà se l’è cavata, non poteva fare altrimenti. Non posso dirgli nulla. Era solo ma non se ne rendeva conto. Ero solo, fastidioso, ribelle, bello o almeno così dicevano. La solitudine esiste come sensazione, è l’abbandono. A un certo punto mi son trovato senza punti di riferimento, lo ero per altri ma non avevo nessuno a cui appigliarmi. Ho pianto molto, proprio qui, in questa stanza, questa casa mi ricorda molte emozioni. Sono legato emotivamente ai luoghi. Non ero adatto a quei tempi, io venivo dal grunge, ero facilmente attaccabile e i media stupidamente non capivano i miei messaggi. Tendevano a non farmi passare per ciò che ero e mi venivano addosso. Allora non era facile accettarmi, però c’era qualcosa che voleva comunque io continuassi a fare questo lavoro ed era la gente. Io devo solo ringraziare la gente. Perché è per merito loro che io esisto. Pochi giorni fa, all’Arena non riuscivo quasi a parlare tante erano le grida del pubblico. Questo affetto mi viene dato perché sono uno di loro, non perché sono bravo e bello ma perché li rispetto, perché salgo sul palco senza sentirmi migliore di loro, senza ergermi.
Oggi Fabbrica è considerato un capolavoro. Cosa è cambiato da allora?
È successo che le nuove generazioni si sono rivoltate e quelle vecchie hanno perso questo strano concetto su di me che faceva comodo, senza che io abbia fatto nulla per cambiarlo. I media ti usano per quel che gli conviene: Grignani andava bene come ragazzo bello e ribelle. Io ho fatto in modo che la gente cambiasse la visione dei media, ha deciso il mio pubblico cosa sono e questo non me lo toglie nessuno. Viviamo in un momento in cui le cose sono davvero cambiate. Dopo Gesù Cristo e i Beatles, la rivoluzione adesso la fa il web. Non esiste più il prototipo né l’icona da imitare perché il pubblico comprenda la tua arte, se parliamo di arte fatta per comunicare non solo per vendere, altrimenti non è arte. Oggi il sistema permette di andare avanti a chi ha del potenziale umano, ecco perché mi arriva un riconoscimento in più in questo momento. È giusto e mi permette di andare avanti e di scrivere, io lo reputo giusto altrimenti devo crepare per essere considerato? ma ho solo 50 anni e presto pubblicherò una trilogia, “Verde Smeraldo”. Lo devo a Stefania, una mia amica che non è più con noi. Lei mi ha insegnato la rivoluzione.
Anche “Non dirò il tuo nome” è dedicata a lei?
No, lei era Sara, la mia fidanzata. La stessa per cui ho scritto “La mia storia tra le dita”. Mi sono innamorato una volta sola a 16 anni e a quell’età non si può parlare di amore, quindi credo di essere sentimentalmente vergine. Scrivo d’amore immedesimandomi, ma mi manca. Nei miei pezzi, costruisco una donna per come vorrei che fosse. Non so come potrebbe essere incontrarla, adesso che ho 50 anni.
Che ricordi ed emozioni associa ai suoi primi successi?
Sono uscito fuori senza che neanche vedessero la mia faccia e con “La mia storia tra le dita” ho venduto 60mila copie, poi sono arrivato e ho combinato un casino. Se non mi facevo vedere era meglio. In Italia si tendeva a manipolare molto, si tendeva a fagocitare tutto. L’anno dopo, non volevano che andassi a Sanremo con “Destinazione Paradiso” ma con “Una donna così”: volevano plasmarmi e io gli ho distrutto tutto, gli ho portato via la pentola d’oro ma l’ho fatto col cervello più di quanto si possa pensare. Sono così da quando sono nato, ho dovuto imparare a difendermi ma non lo farò amai abbastanza da me stesso.
Per lei cosa significa essere un artista?
L’artista accende un faro dove altri non lo fanno e non può fare altrimenti, è la sua condizione esistenziale. Non è stato facile accettare questa cosa, per una persona come me. Mi fa paura sentirmi un artista, sapere di essere diverso. Forse non mi crederai, ma sono un buono, sono umile. Più gente c’è ai concerti e più io tendo ad abbracciarli, a comunicare. C’è una parte di me che ne ha bisogno di farlo, è come una lingua che mi fa parlare con gli altri. Sono un artista figlio di più dei tempi che corrono che di quelli da cui sono venuto fuori. Dovevo capire chi fossi e accettare che lo potessi fare anche se gli altri non mi davano questa possibilità, perché non volevo mercificare la mia musica.
Però ha scritto anche lei pezzi commerciali.
L’aiuola era un gioco che ha funzionato, i Beatles hanno fatto Yellow Submarine. Volevo fare dimostrare a me stesso che potevo fare una hit estiva senza problemi.
Oggi, con il web, crede sarebbe diverso rispetto ai tempi di “Fabbrica di Plastica”?
Adoro i Måneskin e credo che il web oggi gli abbia permesso di fare quello che prima non si poteva, ma anche per me è così, ho 50 anni e faccio ancora musica interessante, non c’è nessun divario tra me e la nuova generazione di artisti. Blanco, Irama e Rkomi mi chiamano leggenda, credo di essere transgenerazionale. Il web ci dà la possibilità di andare ovunque, essere famosi tra un po’ sarà fuori moda. Il potere ormai è volatile. Noi siamo ancora nel Medioevo perché non ce ne rendiamo conto di quanto siamo liberi. Il sistema oggi è rivoltabile e il futuro non è più di quelli furbi ma di chi ha del potenziale umano, è questa la vera rivoluzione.
Lei è di ispirazione per molti, ma chi ispira Grignani?
Neil Young ha fatto il mio stesso viaggio, ha anche lui quel tipo di atteggiamento. Non ha ancora capito chi è, è un artista enorme. All’epoca, si staccò dai CSNY perché per lui erano troppo pop: questa è la solitudine. Non voleva essere etichettato. Chi fa arte non deve avere interessi economici, io non ho mai cercato tanti soldi, l’80% dei miei colleghi pensa ai soldi e poi magari non li fa. Oppure smettono di essere artisti. Avrei voluto fare un disco come “The Bends” dei Radiohead, neanche loro volevano essere catalogati e perciò Tom York, quando ha iniziato a parlarsi addosso ha fatto un altro gruppo, The Smile. Mi ispiro anche a Picasso e Van Gogh, a Charlie Chaplin, a Kafka, a Poe. Non sopporto Dostoevskij. Adoro Bob Dylan che a 20 anni aveva già capito tutto».
Spesso è stato demonizzato, negli ultimi tempi.
Non sono un santo e da che si pensi, non sono uno che beve volentieri, guarda quanto è distante da me la demonizzazione di cui tu parli. Da qui alla piazza del paese più vicino su 30 persone chi è santo? Non dipendo dall’alcol né dal gioco. Certo, ogni tanto esploro ma non ho dipendenze perché non ho mai visto nessuno uscirne. Mio nonno è stato portato via dall’alcool, era anche lui un musicista. Il gioco mi annoia, già la parola dipendenza mi annoia perché ho un cervello sempre in movimento. Non mi interessa ciò che si dice di me, il tempo darà più ragione. Me ne frego quando è il momento di farlo e ci riesco bene. Anche delle critiche piovute sulla mia esibizione di Sanremo, l’ho saputo dopo dieci giorni che rompevano le palle. Lo sapevano persone che lavoravano con me. Ho capito subito che era una cazzata. Prima, mi struggevo stupidamente ma a un certo punto ho capito che certi miei atteggiamenti sembrano surreali solo a chi crede che le favole non esistano, perché non ha possibilità di cambiare o non vuole farlo.
Crede nel potere della musica per poter agire sulla società civile?
Non sono politico ma se c’è da prendere posizione lo faccio e se ci fosse la possibilità scenderei in campo, non per fare il fenomeno ma come soldato. L’unico che può fare il presidente del Consiglio in Italia è Fedez: è intelligente, semplice e furbo. Anche se è distante da me, ha una personalità abbastanza paracula per fare il presidente: è l’unico di cui Io mi fiderei.
Nella sua vita, c’è qualcuno di cui si fida?
Le persone di cui posso fidarmi sono quelle entrate da poco nella mia vita, sapevo che prima o poi le avrei incontrare a furia di scremare e andare avanti. Hanno capacità particolari non solo artistiche ma anche umane. Lavorare con me significa fare delle scelte, fare una vita piuttosto che un’altra, stare su un cavallo. Starmi vicino è difficile ma sono uno di cui ci si può fidare. Però con me bisogna volare alto, avere delle idee, sono inquieto, questa è la fatica di accettare di essere un artista. È difficile essere per natura fuori dal coro. Vorrei morire il più tardi possibile, ho tante cose da scrivere e da dire. Credo di avere un senso per cui scrivo, un sweet spot sulla Terra. Non ero fatto per un’altra vita, ci ho provato.