Calcio

Criticare ora Allegri è come sparare sulla croce rossa: non sono i risultati che lo condannano, è lui che si è condannato da solo

FATTO FOOTBALL CLUB - Forse è la nemesi per la società, che ha scelto la strada più corta e che sembrava la più facile: richiamare il vecchio allenatore dell’ultimo ciclo vincente, rinnegare senza coraggio la svolta tentata con Sarri e Pirlo per rifugiarsi nella solidità del livornese. Le minestre riscaldate nel calcio non funzionano quasi mai, ma ci dev’essere molto più di un luogo comune trito e ritrito in quanto sta accadendo alla Juventus e al suo mister

Troppo facile prendersela con Allegri quando perde contro il Monza che non aveva mai vinto nella sua storia in Serie A, oppure pareggia in casa contro la Salernitana, o si fa prendere a pallate in Champions dal Benfica. Come sparare sulla croce rossa. Non sono i risultati che condannano Allegri: Allegri si è condannato da solo. Oggi la Juventus appare una squadra allo sbando, inadeguata dal punto di vista tecnico, impreparata da quello fisico, inesistente sotto quello tattico. Ma ben prima di questa deriva era indegna della sua storia. Già quando Allegri l’anno scorso inanellava un 1-0 dopo l’altro, con prestazioni oscene, però sistemando la classifica. Tutta polvere sotto al tappeto. I risultati di oggi sono la conseguenza e non la causa di un fatto semplicissimo, incontestabile e ormai conclamato: la Juventus gioca malissimo, il suo è un calcio brutto, vecchio, addirittura preistorico.

Non può essere solo colpa dell’allenatore. È quasi sempre vero in casi del genere, ma un po’ meno in questo. Certamente pesano i buchi della rosa, lo stesso Allegri ha insistito più volte sulle assenze, Chiesa, Pogba, Di Maria a mezzo servizio. A parte che non può essere solo sfiga, ma non c’è infortunio o carenza d’organico che ti costringa a rinunciare a giocare a calcio. Il problema della Juve non sono il girone in Champions quasi compromesso, e nemmeno i 7 punti in distacco dal Napoli in campionato. Il problema della Juve è Vlahovic che alla Fiorentina sembrava uno dei centravanti più forti del pianeta e oggi in una partita tocca mediamente meno palloni del portiere. Sono i cambi sempre rinunciatari, un terzino per un esterno, un centrocampista per una punta. Sono i lanci lunghi dalla difesa, e i traversoni dalla trequarti, senza uno straccio di idea e forse nemmeno di volontà di costruire la manovra. Sono le urla dalla panchina, “è finita, è finita”, per portare a casa un pareggio come una neopromossa. Per questo, e non per la sfilza di sconfitte imbarazzanti e il ritardo in classifica ampiamente recuperabile, il problema della Juve si chiama Massimiliano Allegri.

Forse è la nemesi per aver scelto la strada più corta e che sembrava la più facile: richiamare il vecchio allenatore dell’ultimo ciclo vincente, rinnegare senza coraggio la svolta tentata con Sarri e Pirlo per rifugiarsi nella solidità di Allegri. Le minestre riscaldate nel calcio non funzionano quasi mai, ma ci dev’essere molto più di un luogo comune trito e ritrito in quanto sta accadendo alla Juventus e al suo mister. Una squadra forte, probabilmente la più forte del campionato nonostante tutto, incapace di esprimere qualsiasi tipo di concetto, anche contro le avversarie più deboli. Un allenatore bravo, perché non c’è dubbio che Allegri lo sia o almeno lo sia stato, ridotto in queste condizioni. Davvero bisognerebbe poter entrare nella testa di Allegri per risolvere questo piccolo mistero di psicologia calcistica e spiegare le ragioni di una tale involuzione. Tra il 2014 e il 2019, praticamente l’altro ieri, Allegri è stato uno dei migliori allenatori in circolazione. Ha vinto tantissimo, 11 trofei in cinque anni, ma non solo: la sua Juve ha disputato anche alcune delle migliori partite della storia recente del pallone italiano. Il 3-0 rifilato al Barcellona nel 2017, o quello all’Atletico Madrid nel 2019, sono state autentiche lezioni di calcio, con soluzioni tattiche audaci. Perché Allegri in principio non era un catenacciaro. Però si è fermato lì: in un calcio iper-moderno, che si fonda su concetti complicatissimi di costruzione, pressing, uscite e transizioni, lui parla una lingua che non esiste più. E a furia di predicare la filosofia del “corto muso” si è dimenticato tutto il resto. Ecco, è come se Allegri sia ormai schiavo del suo personaggio: vincere difendendo e giocando male è diventata per lui una questione quasi personale.

Questa è la sua sfida, che rinnova domenica dopo domenica, con ostinazione feroce, persino con arroganza, trascinando con sé la squadra e il club. Una partita che non ha ancora perso, perché il campionato è lungo. Ma il processo ormai è iniziato e il verdetto rischia di essere inesorabile. E allora Allegri potrà prendersela solo con se stesso, per essersi scritto la condanna da solo: cosa rimane del tuo calcio se poni al centro solo la vittoria, ma questa non arriva? Nulla. Come di Allegri e della sua Juventus.

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