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In Niger mendicanti si può diventare

Genitori che, in cambio di un po’ di soldi, affittavano o vendevano i loro figli normalmente per un periodo di tre anni a dei personaggi, i cosiddetti ‘padroni’, che si industriavano per portarli nelle grandi città. Maggiormente, in Francia ed Inghilterra dove li obbligavano ai mestieri più umili e duri: lustrascarpe, venditori per le strade di statuette di gesso e di santini o di altre immagini o di fiammiferi, sguatteri, facchini, mendicanti, suonatori di organetto, spazzacamini in certe fabbriche senza cure, senza pulizia; alloggiati in tuguri infami, nella promiscuità e abiezione più ripugnanti… Si tratta di bambini italiani dei quali, qualche anno fa, l’insegnante Michele Santulli scrisse in un articolo pubblicato dal sito ‘altritaliani’. Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire nella scontata saggezza di un tempo passato e sempre attuale.

La mendicanza è costitutiva della nostra avventura umana perché, se ci pensiamo, vivere non è che passare da una stato di mendicità radicale ad altri stadi più coscienti, ma sempre ‘mendicativi’. Dal neonato, radicalmente bisognoso e dunque mendicante di tutto, all’adolescente, al giovane e infine all’adulto, cambiano solo le modalità ma alla radice rimane la ‘mendicanza’ come dimensione ineludibile della vita. Cibo, affetto, amicizia, sguardo, sorriso, riconoscimento, accettazione, fiducia e rispetto. Questo e molto altro è ciò che mendichiamo quotidianamente nelle nostre umane interazioni. Mutano i nomi, le modalità o le caratteristiche, ma rimane inalterato il ‘principio mendicanza’.

Altra cosa è l’induzione, l’educazione professionale e lo sfruttamento della mendicanza dei bambini. In alcuni Paesi ciò avviene in modo aperto e per così dire codificato dagli usi e costumi. Chi arriva per la prima volta nella capitale Niamey è stupito dal numero impressionante di bambini che, utilizzando la strada come ambito di lavoro, una funicella e un pentolino come strumento di lavoro, mendicano cibo o monetine. Vengono comunemente chiamati ‘Talibé’, scolari di modeste scuole coraniche di quartieri poveri, affidati a maestri che cercano di sbarcare il lunario facendosi ‘aiutare’ da coloro ai quali insegnano i rudimenti del Corano in arabo. Malgrado le leggi, le raccomandazioni e le ingiunzioni questo fenomeno continua ormai da anni e rischia di protrarsi finché farà comodo ad alcuni che esso perduri.

Un’armata di mendicanti potenziali potrebbe essere utile a molti. Per guadagnarsi il paradiso con le elemosine del venerdì, per avere voti eventuali quando verrà il momento delle elezioni per i piccoli mendicanti saranno cresciuti e infine per ogni eventuale manifestazione di piazza, quando ve ne fosse di bisogno.

Oltre le cipolle e la carne del numeroso bestiame transumante, da anni stiamo esportando bambini mendicanti. In Algeria, nel Senegal e, secondo le recenti notizie dei mezzi di comunicazione, nel Ghana. Si sono formati circuiti di sfruttamento dei bambini da parte di adulti, donne e uomini, che accompagnano e coordinano i processi di mendicanza e la spartizione dei guadagni operati grazie a loro. Tutto ciò appare giustamente scandaloso, ma non solo perché il fatto implica una visione negativa e vergognosa del Paese di origine dei bambini. Lo scandalo consiste soprattutto nella riduzione a oggetto di pietà e dunque di sfruttamento dei bambini, che per tutta la loro vita saranno marchiati da questa forma di schiavitù contemporanea. Ciò che dovrebbe piuttosto interrogare autorità, cittadini, genitori, strutture educative e istituzioni religiose è il motivo e cioè le condizioni sociali ed economiche che portano alla ‘professionalizzazione’ della mendicità. Essere costretti o perlomeno spinti alla scelta della mendicità per sopravvivere è una sconfitta e una vergogna per tutti, Dio compreso.

Mendicanti si nasce e talvolta lo si diventa per necessità ma, per fortuna, mendicanti non si rimane per sempre.