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Ucraina, cos’è rimasto dell’Europa di vent’anni fa?

Sono andato a rileggermi un’intervista di Repubblica all’allora presidente della Commissione Europea Romano Prodi, rilasciata all’indomani della firma ‘storica’ dei trattati di adesione che decretarono, nel 2003-2004, il più consistente allargamento dell’Ue a nuovi membri. In quell’intervista, Prodi rivendicava di essere riuscito a ottenere non sei nuovi Stati membri, come previsto, ma dieci, e ricordava che con altri paesi l’Unione rafforzava politiche di vicinato. Tra questi, in quello che veniva definito un “anello di amici”, il Marocco e la Russia, sulla quale pesava la richiesta di Silvio Berlusconi di farla entrare proprio nell’Ue.

Prodi, all’incalzare del giornalista, rispondeva che l’allora ministro degli esteri russo Ivanov non aveva avanzato richieste in tal senso, e che anzi già Putin aveva dichiarato di non voler entrare nell’Unione. E chiosava che un allargamento senza un progetto politico si sarebbe ridotto all’istituzione di una mera zona doganale. La Russia in verità non solo non voleva entrare affatto nell’Ue, ma era piuttosto preoccupata dall’allargamento a Est, dal momento che temeva che ciò avrebbe alterato i suoi rapporti storici con alcuni membri, in particolare Italia e Francia. Del resto i paesi di nuovo ingresso erano tacciati di farsi portatori, come ricordava l’intervistatore a Prodi, di valori “più atlantici che europei, poco compatibili con il progetto di una vera Unione politica”. In quegli stessi anni, i neoconservatori statunitensi andavano dicendo che gli europei vengono da Venere e gli statunitensi da Marte, ovvero che i primi confidavano in un futuro kantiano di pace e prosperità garantite dal diritto e dalla cooperazione, mentre gli Stati Uniti continuavano a farsi carico del loro manifest destiny, per dirla con un’espressione ottocentesca mai smentita nei fatti, ovvero a muoversi guerreggiando in un contesto anarchico hobbesiano in cui l’ordine può essere garantito solo da chi ha le armi (e le usa).

I neocons da Wolfowitz in giù erano allievi di Allan Bloom, quello della Chiusura della mente americana, il quale a sua volta era allievo di Alexandre Kojève, il russo naturalizzato francese che nel 1945 aveva scritto un progetto di ‘Impero latino’ per il ministero del commercio estero francese in cui teorizzava l’unione tra i paesi cattolici Italia, Spagna (franchista all’epoca) e Francia sotto la guida di quest’ultima, ma soprattutto in cui teorizzava una seconda Versailles per la Germania, che avrebbe dovuto essere punita e spogliata. Le cose sono andate diversamente, e l’Europa (di cui pure Kojève era divenuto grand commis) è diventata uno spazio che ha saputo integrare e pacificare, più che punire, una parte di quella Germania responsabile della catastrofe bellica appena conclusa. L’Europa ha tentato di trasformarsi in un polo di attrazione non mediante l’hard power dei marziani, ma il soft power dei venusiani: Stato di diritto, democrazia, libertà, in cambio di integrazione economica e libertà di circolazione. Un progetto parzialmente fallito, anche a causa dell’allargamento a Est.

Ma cosa è rimasto di quell’Europa? E quale sarà la logica che ne presiederà la politica dopo questa guerra?

Il 2003 aveva già tracciato un solco, l’apertura all’Ucraina e il contestuale ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato finiranno per rendere definiva la trasformazione degli europei in marziani. A meno che non si cominci a pensare che la Russia è tanto europea quanto l’Ucraina, e che alla logica punitiva occorra sostituire quella dell’integrazione, sempre che si riesca a mettere in moto il medesimo potere di attrazione in cambio di democrazia e diritti, da far valere però sia per la Russia post-putiniana che – mutatis mutandis – per l’Ucraina di (o post) Zelensky. Meno Nato, più Europa; meno Marte, più Venere (non aut aut, come vorrebbe un fatuo pacifismo irenistico). Perché se l’Europa ha un senso, esso sta nella pacificazione dei nemici storici.