Cinema

Luc Merenda torna sul set dopo oltre 30 anni: “Il vero cinema non morirà mai”

Ribelle, indomito, guascone. Luc Merenda è tornato. Trent’anni dopo (dice lui). Ancora fusto come negli anni settanta, capelli corti e pizzetto imbiancati, e l’anagrafe che segna settantanove. L’avevamo lasciato tra i fotogrammi dei poliziotteschi firmati Fernando Di Leo e Sergio Martino, tra le pagine televisive di uno degli sceneggiati francesi più visti di sempre (Chateuvallon), ma anche a divertirsi di fianco ai grandi della comicità italiana come Ugo Tognazzi, Enrico Montesano, Paolo Villaggio e Lino Banfi. “Ho avuto un’interruzione di una trentina di anni dove per sopravvivere sono diventato antiquario commerciando in oggetti del sud est asiatico”, spiega a FQMagazine dal set del cimitero della Villetta di Parma dove sta girando il lungometraggio Il paese del melodramma. “Poi arrivato ad un certo momento della mia vita avevo un bisogno vitale di tornare in Italia. Non dico che sono tornato per morire, ma per vivere meglio prima di raggiungere il mio personaggio”.

Già, perché Merenda nel nuovo film di Francesco Barilli interpreta nientemeno che “la morte”. Lunga tunica nera sotto il sole cocente, capelli grigi che gli arrivano a metà schiena e un’enorme falce (di plastica) che si trascina tra le tombe monumentali art decò della Villetta. “Faccio una parte folle. Pensa che mi sveglio la notte per sapere se sono ancora vivo. La falce la uso perché i viventi non sono sempre obbedienti. I politici del resto fanno la stessa cosa, anche se non girano con la falce in mano”. Il paese del melodramma è diretto dall’eclettico Francesco Barilli, attore per Pietrangeli e Bertolucci, ma soprattutto sceneggiatore e regista tra gli altri de Il profumo della signora in nero e de L’Urlo, celebre corto fantascientifico del ’66 poi rigirato a colori nel 2019. “Ero al telefono con amici – racconta Barilli – e a un certo punto mi dicono che lì con loro c’era Luc. Lui era stato protagonista assieme a Francisco Rabal nel 1978 del mio Pensione Paura, ma siamo rimasti amici in tutti questi anni. Comunque dico ‘passatemelo’. Poi appena lo sento gli intimo: “Luc vieni a fare un film per me. Devi interpretare la morte. Non puoi dire di no”. Film che, tra l’altro, è un piccolo miracolo produttivo (300mila euro di budget con ancora non tanti contributi pubblici in cassa) nato grazie ai denari di Pietro Corradi, Antonio Amoretti, Avila Entertainment, e di quelli dell’attore Luca Magri (Voglio una donnaaa!, Il solitario, Il vincente), qui co-protagonista del film assieme a Merenda, nei panni di un cantante lirico distrutto dalla morte dei propri cari, alcolizzato ed esistenzialmente alla deriva, spinto dalla Morte a reinterpretare il Macbeth di Verdi, altrimenti la figura con la falce se lo riporterà con sé. “Sono come Bruce Campbell e questo film è il mio Army of darkness”, scherza Magri seduto tra lapidi sontuose e fotografie di deceduti che in postproduzione si rianimeranno come viventi.

Merenda sornione si gode il ritorno davanti alla macchina da presa. Coccolato, seguito, accudito come una star. Tra un cestino e un ciak gocciola l’aneddotica del cinema che ha interpretato quasi mezzo secolo fa. Quando per chiudere la produzione di Action di Tinto Brass il produttore beneficiò all’ultimo momento di una polizza assicurativa appena riscossa o quando Merenda in persona, appassionato di auto (“nei primi anni settanta feci la Milano-Roma in due ore e 42”) speronò volontariamente “l’antipatico” Jean-Louis Trintignant in una gara di bolidi guidati da superstar dello spettacolo. Al seguito dei genitori che lavoravano in Marocco quando era bambino, Merenda crebbe un po’ guappo e un po’ teppistello (“davo le testate per avvisare che non era il caso di fregarmi”, “ero come Robin Hood, rubavo ai ricchi per dare ai poveri”); poi tornato a Parigi diventò modello e infine attore. “I film del cuore? Hotel Paura, Il poliziotto è marcio, Gli amici di Nick Hezard. Molti film li ho girati con piacere, altri meno, ma non mi sono mai venduto ad ogni cosa proposta. Poi certo, ho accettato cose meno belle, ma non era cinema di serie D: erano film di serie B, popolari e visti nei cinema dell’epoca, e che poi nel tempo sono diventati cult. Non pensavo di essere così rimasto impresso nelle memoria degli spettatori. Su Facebook alcuni amici hanno aperto una pagina per me e pur essendo sparito da oltre trent’anni, in un paio di settimane hanno cominciato a seguirmi oltre 500 persone”.