Cultura

Pietà di Michelangelo, a 50 anni dall’assalto riflettiamo sulla vulnerabilità dell’arte

“E’ la più grande disgrazia contro la civiltà e contro la cultura. Non avrei mai pensato che la follia o la pazzia potessero deturpare, se non distruggere completamente, uno dei più significativi capolavori dell’uomo”. Con queste parole lo scultore Giacomo Manzù commentava a caldo una data destinata a rimanere nella storia: 21 maggio 1972, l’attentato alla Pietà di Michelangelo che in quei momenti e giorni concitati si riteneva irrimediabilmente sfregiata.

Alle 11:30 di cinquant’anni fa, un folle cominciò l’opera di distruzione, con una mazzetta, sotto lo sguardo vitreo di centinaia di visitatori presenti all’interno della Basilica di San Pietro. Un folle fino a quel momento anonimo prima di essere bloccato e addirittura salvato dal linciaggio. László Tóth, questo il nome del geologo australiano di origine ungherese, aveva appena attaccato un simbolo universale, colpendo con particolare crudeltà il capo, il volto e le braccia della Madonna al grido “Cristo è risorto! Io sono il Cristo”. Grido che poi troverà similitudini sia con il periodo, sia con le parole pronunciate dal terrorista Ali Agca che cercò di uccidere Giovanni Paolo II nel maggio 1981: “Io sono il Cristo eterno. Io sono la medesima parola divina incarnata e reincarnata”.

Tornando al gravissimo atto vandalico del 1972, la prima preoccupazione di fronte all’immagine dello sfregio fu quella di “guarire” il capolavoro di Buonarroti dalle gravi ferite inferte senza “Pietà”. Ora la Madonna, nel mese che la celebra in assoluto, oltre a proteggere da ulteriori violenze suo Figlio morto secondo le Scritture, aveva la necessità di tornare a splendere di quella luce non solo artistica ma veramente incarnata e sanguinante e non solo nel giudizio dei credenti. Anche qui si compie quello che Piero Calamandrei riteneva in merito alle opere d’arte considerate al pari di persone vive con le quali è possibile dialogare. E allora il primo pensiero fu quello di chiedersi: si salverà? Potrà tornare tutto come prima? E per fortuna l’abilità dei restauratori ha consentito all’umanità di ritrovare quell’espressione che Michelangelo aveva pazientemente creato, sin dalla scelta della pietra senza impurità e imperfezioni.

E’ del tutto evidente che, in quel momento storico, si riflettesse sulle ragioni e i motivi di una tutela del patrimonio monumentale, argomento oggi ancora all’ordine del giorno, soprattutto di fronte all’attuale conflitto russo-ucraino già causa di numerose e irrimediabili distruzioni. Giulio Carlo Argan sosteneva: “Quello che è accaduto pone una volta di più in evidenza come sia pericoloso che opere di grande valore vengano conservate là dove non possano essere continuamente sorvegliate come in un museo”. Ma il sedicente Cristo di professione geologo, morto nel 2012 e curiosamente in un giorno, l’11 settembre, che ricorda la distruzione delle Torri Gemelle in diretta mondiale, probabilmente si sarebbe mescolato non già alla folla di fedeli, ma ai “normali” frequentatori di musei anche in relazione al suo abbigliamento oltremodo curato e dunque avrebbe verosimilmente distrutto quel pregiato “statuario”, che da una cava esclusiva delle Alpi Apuane diventò di carne e ossa grazie all’utilizzo “divino” dello scalpello.

Per nostra fortuna al volto della Madonna è stata restituita la stessa espressione voluta da Michelangelo. Era l’ansia dei fedeli e degli esperti. E in occasione di questo anniversario, che ci consente di riflettere sulla vulnerabilità di ciò si riteneva e si ritiene eterno e inattaccabile, è il caso di ricordare Pasquale Rotondi, un esemplare Salvatore dell’arte. Egli, al tempo dei fatti direttore dell’Istituto nazionale del restauro, affermò: “Mi auguro che ogni più piccolo frammento sia stato raccolto e conservato e che non siano troppo numerose le parti polverizzate”. Ogni piccolo frammento della sacralità dell’interezza. Poi finalmente il completo e mirabile recupero, preceduto dall’immagine di quel drappo rosso di velluto a protezione dell’incarnato ferito, in attesa di risplendere per sempre.