Diritti

“Vorrei vedere i bambini giocare”. In un libro le storie dalle guerre raccontate da un’infermiera in prima linea. Con nota di Cecilia Strada

Il libro è stato pubblicato dalla casa editrice Libreria Pienogiorno. L'autrice, da anni impegnata su molti fronti come esperta di emergenza clinica con Emergency, Medici senza frontiere, ResQ People, racconta la guerra dalla parte delle vittime, in questo caso dalla parte dei bambini: ad oggi, sono almeno 200 i bambini rimasti uccisi solo nel conflitto in Ucraina

Esce oggi 4 maggio in libreria “Vorrei vedere i bambini giocare. Storie di un’infermiera dentro la guerra” (Libreria Pienogiorno) di Marina Castellano, da anni impegnata su molti fronti come esperta di emergenza clinica con Emergency, Medici senza frontiere, ResQ People. L’autrice racconta la guerra dalla parte delle vittime, in questo caso dalla parte dei bambini: ad oggi, sono almeno 200 i bambini rimasti uccisi solo nel conflitto in Ucraina.

Di Vorrei vedere i bambini giocare e dell’autrice Cecilia Strada scrive: “Io e Marina abbiamo camminato tanto insieme. Ci siamo conosciute in un mondo in guerra, e questa era la brutta notizia, ma pieno di persone che si impegnavano ogni giorno per dare una mano alle vittime, per alleviarne le sofferenze, per costruire pace e diritti in mezzo all’orrore – e questa era la buona notizia: anche davanti all’inferno, per non rimanerne schiacciati, si può fare qualcosa, si può costruire “quello che inferno non è”, come diceva Italo Calvino. Poi un giorno le strade sono diventate d’acqua; arrivandoci da rotte diverse, ci siamo ritrovate nel Mediterraneo centrale. Un’altra frontiera, un’altra guerra, perlopiù contro i poveri e i neri; una crisi umanitaria drammatica e negletta, faticosa e impopolare. Mentre la ResQ People usciva dal porto per la sua prima missione, ai primi di agosto dello scorso anno, ci siamo abbracciate sul ponte, contente di essere insieme, e continuavo a ripeterglielo: “Come sono contenta che ci sei”.

“Ancora non sapevo quanto sarebbe stato importante”, continua Strada: “Qualche giorno dopo se n’è andato mio padre Gino, che per Marina era stato un collega, un amico, un pezzo importante di vita. E se n’è andato proprio mentre noi facevamo un soccorso in mare e portavamo al sicuro decine di persone. Nei giorni successivi, sui trentanove metri del nostro mondo, sono saliti a bordo centosessantasei naufraghi, il più piccolo aveva otto mesi. Marina l’infermiera si è presa cura di tutte e tutti e non ha perso d’occhio nessuno; Marina l’amica non ha perso d’occhio nemmeno me, si è presa cura anche di me – nell’estate più pazzesca della mia vita – e mi ha tenuto al sicuro. Perché è questo quello che fa Marina a chi le sta attorno”.

Per gentile concessione dell’editore, anticipiamo l’introduzione del volume:

«In Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra che semina morte, distruzione e miseria. Le vittime sono sempre più numerose, così come le persone in fuga. La guerra è una pazzia! Fermatevi per favore! Guardate questa crudeltà». Sono le parole di papa Francesco, ripetute quasi quotidianamente a partire da fine febbraio 2022, da quando la Russia ha attaccato militarmente l’Ucraina.

Di colpo, in quel mattino di febbraio, noi europei siamo stati catapultati in una realtà che mai ci saremmo aspettati di vivere: la paura della guerra, della guerra vera, vicino a casa nostra, nella nostra casa comune. La guerra era qui, a poche migliaia di chilometri da noi. Le persone coinvolte, questa volta, ci somigliavano per il colore della pelle, per i vestiti, le abitazioni, lo stile di vita. Tutto sembrava drammaticamente più reale, e la nostra vita quotidiana improvvisamente friabile, fragile, incerta.

Restavamo incollati alla tv a guardare con orrore e paura immagini sempre più tragiche e folli. Gente che scappava, che correva, tirandosi dietro, in un trolley, tutta una vita. Bambini che si aggrappavano alle madri, uomini che accompagnavano mogli e figli nella fuga, e poi costretti a dividersi, alla frontiera, obbligati a tornare indietro, a combattere. Le metropolitane e le stazioni ferroviarie diventate rifugi nei quali le persone non avevano più accesso all’acqua potabile, dove il cibo iniziava a scarseggiare. I piccoli che erano in cura per patologie importanti, come può esserlo un paziente oncologico, relegati anche loro chissà dove, nei sotterranei di qualche ospedale, di qualche palazzo, costretti a sperare di essere evacuati al più presto, in un altro paese, per tenere accesa la luce della speranza, per continuare a essere curati. Intanto, là fuori, lo scenario di sempre, di tutte le guerre: corpi straziati a terra, donne stuprate, madri costrette a partorire in luoghi di fortuna, scuole e ospedali colpiti con sadica precisione, quartieri rasi al suolo.

Dopo il primo mese di guerra, si è incominciato a fare la conta, e il bilancio era drammatico. Le vittime civili centinaia, migliaia, ben più di cento i bambini. La guerra uccide ogni innocenza, per questo i bambini così spesso ne sono le vittime predilette. Le agenzie sfornano numeri, ma la realtà, vera, cruda, terribile, è molto meno astratta: quei numeri sono persone, e per la maggior parte, come in tutte le guerre nel mondo, sono civili. Il novanta per cento delle vittime nelle guerre
moderne è rappresentato da civili, bambini, donne, anziani.

Ho lavorato a gran parte di questo libro quando la guerra in Ucraina ancora non c’era, ma io ne avevo già conosciute molte. Nel 2004, dall’Afghanistan, mandai una lettera a mia figlia. Le scrivevo: «Lo so, è egoistico ciò che sto per dirti, ma spero con tutta me stessa che tu non debba mai vivere neanche un solo istante di quello che sto vedendo io, ora, qui». Ora, a distanza di quasi venti anni da quella lettera, vivo ogni notizia dal fronte con terrore. Perché conosco la guerra, la conosco fin troppo bene. So che porta morte, dolore, insicurezza, fame, malattie. E so che, in ogni stupida inutile guerra, le vittime sono sempre le stesse.

So anche che una guerra giusta non esiste, mai. Esiste, da parte di qualcuno, l’idea di essere dalla parte giusta più di quell’altro. A questi qualcuno, poi, si aggiungono tutti quelli bravi a riempirsi la bocca con formule altisonanti, con distinguo capziosi, con esercizi acrobatici di esportazione della pace, con nobili discorsi armati. Anche quando vorrebbe sembrare sensato, il metodo è sempre e soltanto uno: inviare armi, potenziare le spese militari. Ma le armi non parlano, uccidono. Le armi non risolvono, chiamano a raccolta altre armi.

Guardo la tv e rivedo esattamente le stesse scene che ho vissuto in Afghanistan, in Libia, in Repubblica Centrafricana, in Iraq. Rivedo il piccolo Dawood senza la sua gamba, saltata per aria su una mina. Oppure Omar e i suoi amici, colpiti da ordigni che qualcuno vorrebbe intelligenti, mentre giocavano vicino a casa. Rivedo Emanuel, costretto a morire con dolore, senza le giuste cure, dalla povertà che guerre su guerre hanno incancrenito nel suo Paese.

Ovunque, rivedo la cancellazione dei diritti umani. Perché il frutto della guerra è ovunque questo. Ora che la guerra è qui, vicino a noi, con la sua carovana di feriti, di morti, di profughi a milioni, possiamo forse iniziare ad avere una visione più chiara di cosa significhi davvero perdere ogni cosa, scappare, rischiare tutto, ogni maledetto momento, per salvare la vita ai propri figli. Capiremo, finalmente, che cos’è la guerra, ora? «La guerra è una pazzia. Fermatevi!».