Diritti

Quando la scuola accoglie, tutto il resto vanifica e divide. Ecco la storia di una ragazza bielorussa

Occupandomi di umanità, mi è appena capitato di imbattermi in un corollario dell’invasione dell’Ucraina: una storia d’amore Sicilia/Bielorussia. Una vita quasi tutta vissuta lassù ai confini con Polonia e Lituania, la costruzione di una famiglia coronata dalla nascita di due figli, uno ormai pronto a laurearsi in Medicina, l’altra a diplomarsi in Informatica. La storia d’amore finisce, il padre torna in Italia, ma i figli li segue come se fosse lì. Tutto questo fino alla primavera scorsa.

Sta aumentando la tensione interna – le proteste sono soffocate sul nascere e l’opposizione è tutta in esilio o in galera – e quella verso la confinante Ucraina, dato che la Bielorussia è forse l’unico fedele alleato rimasto alla Russia di Putin. Così si arriva all’estate scorsa: i due ragazzi – con cognome italiano e doppio passaporto che il padre, preoccupato per la piega degli avvenimenti in Bielorussia, ha richiesto e ottenuto – provano a uscire legalmente dal paese per raggiungere in Italia il vecchio genitore. È cominciato l’arruolamento di tutti i giovani in età di leva, l’esercito si rinforza in vista delle operazioni militari che si profilano all’orizzonte. Loro non ne vogliono sapere di arruolamento, ma le frontiere sono chiuse, non si esce. A meno di scappare, cosa che faranno a fine luglio, affidandosi alla rete di trafficanti locali.

Arrivano in Italia e si stabiliscono a casa del padre, il maggiore si mette in cerca di un lavoro per superare l’emergenza, intanto cerca di convertire la sua laurea in Medicina in un titolo buono per esercitare la professione anche in Italia. Nell’autunno la più giovane si iscrive a un CPIA per prendere la licenza media (i suoi titoli scolastici non sono trasformabili in automatico, dunque si ricomincia daccapo) e prende a frequentare le poche ore di lezione che queste istituzioni riservano ai giovani immigrati ultrasedicenni (spesso respinti dalle scuole medie e superiori con le motivazioni più assurde, ma sempre in nome dell’“autonomia scolastica”). Così rinfresca il suo italiano, ma resta in una strana condizione di “sospensione di futuro”, deve decidere che fare e trovare gli aiuti necessari. Capisce rapidamente che deve “prendersi il diploma”, quello che stava per ottenere in Bielorussia; per fortuna l’ambasciata italiana gli aveva rilasciato una conversione degli esami sostenuti, dunque qualcosa in mano ce l’ha. La Caritas mi interpella perché la aiuti a cercare e a trovare una scuola superiore che possa accertare il suo livello di competenza e inserirla in una classe adatta ad arrivare il prima possibile a sostenere l’Esame di Stato, la maturità.

Contattato l’Istituto (statale) con un corso di studi adatto, viene ricevuta il giorno dopo dalla Dirigente Scolastica, che aveva già allertato i suoi collaboratori. Arriva accompagnata dal padre e dal fratello, qualche domanda per capire il suo livello di competenza linguistica, una rapida scorsa alla documentazione prodotta seguita dalla proposta di inserimento fin dal giorno successivo in una classe di suoi coetanei, come prescrivono le norme. “Non comprate libri o altro materiale, le prestiamo noi ciò che serve. Così abbiamo il tempo di valutare con lei, trascorsi i primi giorni di ambientamento, se la classe è quella giusta e se ha bisogno di interventi di sostegno”. Nazionalità e condizione personale non sembrano proprio aver avuto alcuna influenza nella qualità dell’accoglienza. Dal giorno dopo ha iniziato a frequentare uno degli Istituti tecnici più importanti. Questa è la scuola che accoglie, degna figlia di un paese che non dimentica chi e cosa siamo, da dove veniamo e dove sarebbe il caso che andassimo.

Poi c’è tutto il resto, che lavora a vanificare il bello e il buono che ancora si produce. Per restare alla scuola, resta difficile da spiegare come mai ai ragazzi stranieri sulla soglia della maggiore età viene proposta una scuola a dosi omeopatiche (4/6 ore la settimana), mentre in Germania gli immigrati (giovani e non) sono tenuti a frequentare corsi intensivi di tedesco (integrationskurs) che devono durare non meno di 20 ore la settimana per 33 settimane, con esame finale. Anche da noi avrebbero bisogno di sviluppare in fretta le competenze linguistiche necessarie ad affrontare la vita quotidiana e qualcuna delle complicatissime procedure con cui lo Stato li tormenta. Dato che non è difficile capire che il presupposto base per l’integrazione e l’inserimento è la conoscenza della lingua, viene il dubbio lo Stato non si attrezzi alla bisogna perché non vuole.

D’altra parte lo si vede anche con l’accoglienza dei profughi ucraini di questi giorni: lo Stato – quello che dovrebbe dare direttive, organizzare la struttura, stanziare il danaro e controllare che arrivi in fretta e venga speso bene – non c’è. Delega tutto al privato, sociale e non, agli slanci e alle imprese eroiche dei singoli che non fanno mai sistema, al massimo servono alle celebrazioni dei tromboni della tivù che le alternano alle dichiarazioni da combattenti della tastiera e lacrimatori a comando. Così si mortifica anche la disponibilità dei tanti volontari, cittadini, associazioni e imprese, nessuno dei quali viene messo nella condizione di assumere impegni sapendo che c’è chi organizza, sorveglia e garantisce anche per loro.

Finché le vittime della sciatteria e dell’arbitrio con cui operano indisturbati pezzi di Stato (tempi di attesa ingiustificabili per pratiche anagrafiche esigibili just in time allo sportello e complicate procedure con appuntamenti biblici; complicazione continua con l’aggiunta di moduli e moduletti, dichiarazioni e autocertificazioni dell’ovvio, scarichi di responsabilità e piattaforme studiate per scoraggiare gli utilizzatori) saranno i cittadini comuni, quelli che non hanno nessuno a cui chiedere per favore ciò che spetterebbe loro di diritto, ci limiteremo a vedere l’Italia scivolare ancora di più nell’apatia e nella depressione. A meno che la riscossa non parta proprio dalle tante persone che “si prendono cura” di ciò che viene loro affidato, non perché animate da chissà quali ideali o speranze di vita eterna, semplicemente perché è il loro lavoro e vogliono farlo bene per essere in pace col mondo e con se stessi.