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Il Papa a Kiev? Con Francesco tutto è possibile

Vedremo papa Francesco a Kiev o a Leopoli? Il nuovo ambasciatore ucraino presso il Vaticano, Andriy Yurash, lo ha invitato appassionatamente a “poggiare i piedi sulla terra ucraina”. Con Francesco tutto è possibile. Se avvenisse, non c’è dubbio però che il pontefice riserverebbe un gesto particolare anche al popolo russo.

Venerdì prossimo il Papa consacrerà Ucraina e Russia al “Cuore Immacolato di Maria”. Bergoglio si serve della tradizione popolare sulle controverse profezie di Fatima come un sacerdote che dall’armadio di sacrestia tira fuori un antico paramento. Ciò che gli interessa davvero è lanciare un messaggio attuale e urgente: russi e ucraini non devono cadere nella spirale dell’odio e di un conflitto senza fine.

Perciò l’unico obiettivo condivisibile è costruire la pace. Con fatica, con tenacia, con la consapevolezza di tutte le questioni in gioco, con la razionale accettazione che vi sono interessi da contemperare. In questo senso Francesco intercetta le aspirazioni e le riflessioni anche di ambienti laici per i quali non va dimenticato che l’esito dello scontro in atto deve essere il superamento della guerra e non l’ “annichilimento del nemico”.

Anche ieri il Papa ha denunciato la “violenta aggressione contro l’Ucraina, un massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità”. I cardinali da lui inviati in Ucraina nelle settimane scorse gli hanno trasmesso evidentemente informazioni di prima mano. “Non c’è giustificazione per questo!”, ha esclamato. Concludendo con quello che resta il suo assillo: “Supplico tutti gli attori della comunità internazionale perché si impegnino davvero nel far cessare questa guerra ripugnante”.

In ogni caso Bergoglio si sforza di mantenere l’aggancio con tutti i protagonisti della partita. La settimana scorsa, parlando in videochiamata con il patriarca russo Kirill, lo ha coinvolto nella “volontà di indicare come pastori una strada per la pace… perché cessi il fuoco”. Un comunicato specifica che “entrambi hanno sottolineato l’eccezionale importanza del processo negoziale in corso”.

Il colloquio è servito anche al pontefice per trasmettere al suo interlocutore il concetto che le “guerre sono sempre ingiuste. Perché chi paga è il popolo di Dio”. Un intervento per interagire psicologicamente con un patriarca, che aveva appena donato alla Guarda nazionale russa l’immagine della Madonna “Theotokos” come pegno di protezione e vittoria.

In Vaticano la preoccupazione per la guerra in Ucraina è altissima. “La situazione è molto più seria di quanto si possa immaginare”, afferma un arcivescovo che conosce assai bene Bergoglio. Preoccupa l’escalation verbale dei leader contro cui ha già messo in guardia il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin. Preoccupa l’esibita non volontà di ammettere che ci sono “interessi legittimi” che stanno a cuore ad entrambe le parti in conflitto.

Preoccupa l’emergere di opinioni secondo cui un po’ di no fly zone si possa organizzare, incuranti del rischio di uno scontro diretto fra aviazione Nato e aviazione russa. Preoccupa lo stile invasato che si fa strada in dichiarazioni istituzionali o sui mass media. L’estetica della guerra, contro cui mette in guardia Avvenire. La cecità di non comprendere che bisogna uscire dalla “trappola” bellica.

Molta parte del mondo cattolico, respingendo totalmente l’aggressione di Putin, rabbrividisce quando sente il generale statunitense Wesley Clark, protagonista dei bombardamenti sulla Serbia nel 1999, affermare che “abbiamo il dovere morale di mostrare ai russi la superiorità Usa”. La stessa fascia pensante del mondo cattolico si rifiuta di chiudere gli occhi sul fatto che il rapporto sempre più stretto tra Nato e Ucraina instauratosi negli ultimi otto anni, anche con esercitazioni militari congiunte, ha alimentato a Mosca la sensazione di sentirsi spinti in un angolo.

Ma soprattutto in parte del mondo cattolico e delle sfere diplomatiche vaticane è acuta la consapevolezza che l’assetto planetario non può più essere unipolare. Il politologo statunitense Fareed Zakaria lo ha descritto così: “La Pax americana è finita. Gli Usa non sono più la sola potenza globale, pur rimanendo ancora quella dominante”. Come pensare allora che Washington possa illudersi di chiedere “o con me o contro di me” a Cina, Pakistan, India, Messico, Brasile, Argentina, Messico, Emirati arabi e Arabia saudita. Gli intrecci sono molto più complessi.

L’India ne è un esempio. Fa parte del gruppo “Quad” con Stati Uniti, Giappone e Australia per controbilanciare la Cina sullo scacchiere pacifico, ma partecipa alla “Cooperazione di Shanghai” con Cina, Russia, Kazakistan. Kirghizistan e Tagikistan. Inoltre è membro del “Brics”, un gruppo economico-commerciale che unisce Brasile, Russia, Cina e Sudafrica.

E’ pensabile che una sola parte al mondo possa credere di mettere in riga gli altri Stati? E’ questo il motivo per cui in Vaticano è diffusa la riflessione che la crisi ucraina sia prodromo dell’esigenza di un nuovo assetto mondiale. Il cardinale Zuppi di Bologna lo chiama l’ “architettura del dialogo fra i paesi e le nazioni”. Intervistato da Avvenire, l’analista strategico Arduino Paniccia della Scuola di competizione economica di Venezia sottolinea che il caso Ucraina “va inserito in uno scenario più grande”. Al momento opportuno bisognerà andare a “trattative di alto livello che riguardano le grandi potenze”.

Domani il presidente ucraino Zelensky si rivolgerà al Parlamento italiano, che ha votato praticamente all’unanimità il sostegno anche con materiale militare contro l’invasione. Lo staff che collabora ai suoi discorsi dovrà conoscere bene il polso della nostra opinione pubblica. Gli italiani sono retorici al bar o nei talk show, ma estremamente realisti nelle situazioni fondamentali. Non credono che tra Mosca e Kiev si svolga una lotta metafisica, diventano diffidenti di fronte a retoriche ripetute nelle sedi ufficiali.

Schierati con convinzione dalla parte degli ucraini, non vogliono sentire tuttavia parlare di una terza guerra mondiale già iniziata e meno che mai di “cieli chiusi” o no fly zone, che dietro l’apparente neutralità del termine significa concretamente rischiare una guerra nucleare. Il presidente Biden ha saggiamente detto no, la Nato ha detto no, gli italiani dicono no.

E’ bene tenerne conto.