Televisione

Giorgio Pasotti a FQMagazine: “Vi racconto la mia storia sulla Cina. Monicelli? Stargli accanto è stato meraviglioso. Quando ho preso il posto di Banderas ho chiesto di non parlare con la gallina”

Tanto cinema - Luchetti, Monicelli, Muccino, Sorrentino - e tanta tv, anche quando le serie erano considerate un prodotto “minore”. Lui c’ha creduto sempre e oggi sbanca con gli ascolti con Lea-Un giorno nuovo, la fiction di Rai1 con Anna Valle prodotta da Banijay Studios Italy, in cui intrepreta un pediatra antieroe e pieno di asprezze

A Giorgio Pasotti la vita è cambiata grazie a un casting fatto in Cina, agli inizi degli anni ’90. Era lì per studiare medicina e seguire la sua passione per le arti marziali quando, quasi per caso, si ritrovò sul set di una produzione di Hong Kong. “Vinsi a mani basse il provino non per talento ma perché fui l’unico occidentale a presentarsi”, racconta a FQ Magazine. Quella curva imprevista ha fatto prendere alla sua vita una direzione precisa e, una volta rientrato in Italia, non si è più fermato. Tanto cinema – Luchetti, Monicelli, Muccino, Sorrentino – e tanta tv, anche quando le serie erano considerate un prodotto “minore”. Lui c’ha creduto sempre e oggi sbanca con gli ascolti con Lea-Un giorno nuovo, la fiction di Rai1 con Anna Valle prodotta da Banijay Studios Italy, in cui intrepreta un pediatra antieroe e pieno di asprezze (martedì 15 febbraio la seconda puntata).

Una volta lei ha detto: “Non mi sono mai considerato un attore di talento, piuttosto un artigiano dello spettacolo”. Che fa, pecca di modestia?
No, semplicemente penso che la parola talento sia abusata e che andrebbe utilizzata in rarissimi casi, dandogli il senso profondo che merita. Veri grandi talenti recitativi ce ne sono stati pochi, ce ne sono pochissimi e io non mi considero un talento puro.
E cosa si considera?
Una persona che ha imparato un lavoro affinando le proprie doti. Mi sono applicato moltissimo e ancora oggi cerco di migliorarmi, cesellando le mie capacità. Questo mi aiuta a rimanere con i piedi a terra e mi costringe a migliorarmi.
Di lei si può dire che è diventato attore per caso. Cina, 1992: fu l’unico occidentale a presentarsi a un provino per il ruolo che cercavano.
Come diceva John Lennon, “la vita è ciò che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti“. Ero in Cina – una Cina molto diversa da quella di oggi, che ancora non aveva metabolizzato le proteste di piazza Tienanmen – per studiare: volevo diventare un medico sportivo e avevo scelto quel paese perché sono sempre stato un appassionato di arti marziali e lì mi potevo allenare al meglio.
Cosa accadde?
Una produttrice di Hong Kong, paese che all’epoca sfornava film che poi coprivano tutto il mercato del sud est asiatico, organizzò un provino e io decisi quasi per gioco di partecipare. Lo vinsi a mani basse perché fui l’unico occidentale a presentarsi.
Perché fece quel provino?
Per curiosità, pensando “quando torno a Bergamo questa la racconto agli amici”. Invece mi presero, poi tornai a studiare, ma poco dopo mi richiamarono per altri film e in totale ne feci quattro. Dovevo solo menarmi con altri dall’inizio alla fine, il talento non era richiesto, la lingua nemmeno: parlavo in mandarino e finivo doppiato in cantonese.
Tornò in Italia con in tasca una laurea breve in medicina ma finì di nuovo sul set. Cosa accadde?
Ennesima sterzata inattesa. Uscirono degli articoli su di me, il ragazzo italiano che conquistava il cinema orientale. Non conquistai nulla, per la verità, ma Daniele Luchetti s’incuriosì, contattò la mia famiglia e mi offrì ruolo in I Piccoli maestri. Accettai per restituire qualcosa alla mia famiglia.
In che modo?
Il fratello di mio padre era partigiano e morì durante la Seconda guerra mondiale e il film raccontava proprio la Resistenza. Accettai il ruolo e da quel momento non mi sono più fermato.
Se non avesse fatto l’attore che medico sarebbe diventato?
(ride) Un pessimo medico. La vista del sangue non mi piace e poi mi appassionerei troppo ad ogni caso, non ho la freddezza e il distacco richiesto a un medico. L’ho fatto un po’ di volte per finta, sul set, e ho capito che è un lavoro che richiede delle componenti caratteriali che non mi appartengono.
In Lea Un giorno nuovo lei è Marco Colomba, un pediatra passionato del suo lavoro ma anche freddo e distaccato.
Mi piaceva l’idea di raccontare un uomo eccezionale sul lavoro ma stronzo nella vita. È un antieroe imperfetto e pieno di spigoli, costretto a fare i conti con la perdita del figlio che aspettava da Lea. E per altro avrà un’evoluzione inaspettata.
La partenza è stata di quelle col botto: 5 milioni di spettatori. Vi aspettavate questi ascolti?
Io non me li aspettavo. Non per la qualità del prodotto ma perché pensavo che visto il successo di Doc non ci fosse spazio in contemporanea per un’altra serie medical. Invece la chiave del racconto e anche il trattare un tema così delicato come la perdita di un figlio quasi alla fine della gravidanza, sono piaciute al pubblico. L’ho capito anche dai messaggi che ho ricevuto in questi giorni, molti dei quali sono di padri che hanno perso figli in situazioni analoghe.
Nella fiction invece il Covid non è un elemento centrale.
No, è appena sfiorato nel racconto e credo sia stata una scelta giusta.
Da bergamasco, che impressione le hanno fatto le polemiche sulle bare di Bergamo e le deliranti dietrologie di chi sostiene siano tutta una finzione?
Non vorrei dare ulteriore visibilità a chi alimenta queste affermazioni vili. Ma ci sto male perché in una di quelle bare c’era anche mia zia. Chi parla o scrive queste scemenze non conosce il dolore che decine di famiglie hanno vissuto in quei giorni, quando nemmeno sapevamo dopo sarebbero stati portati a cremare i nostri cari. Io poi stavo a Roma e ho vissuto il dramma in lontananza, con un senso di impotenza enorme per non poter fare nulla per mia mamma e poi papà.
Lei in pieno Covid, a novembre 2020, è stato nominato direttore del Teatro Stabile d’Abruzzo. Il peggio per il teatro è alle spalle?
È un settore martoriato e poco considerato dalle istituzioni. Ma tocca ingegnarsi e inventare sempre delle alternative. Noi in piena pandemia abbiamo filmato gli spettacoli di venti compagnie teatrali abruzzesi e firmato una accordo con due tv locali che li hanno trasmettessi. In questo modo le compagnie e tutto l’indotto hanno lavorato. Ora andiamo verso tempo migliori ma c’è un’altra incognita.
Ovvero?
Il caro bollette, che rischia di essere un’ulteriore mazzata per un settore già provatissimo. Il Governo deve immaginare degli aiuti concreti perché sennò quella ripresa che intravediamo rischia di sfumare.
Torniamo alla parola talento: quanto ce ne vuole per scegliere i progetti giusti?
Diego Abatantuono una volta mi disse: “In una carriera al 70% conta la capacità di lettura dei progetti”. Aveva ragione. Io quella capacità l’ho affinata presto, sono stato bravo a leggere i copioni, a intuire se c’erano delle potenzialità e se fossero adatti a me. Mi è capitato con L’ultimo bacio, così come con Distretto di polizia, che accettai anche se tutti me lo sconsigliavano.
Perché?
Venivo dal trionfo de L’ultimo bacio, che in breve tempo divenne un film generazionale: piovevano offerte e noi protagonisti eravamo giovani e impreparati a gestire quel successo che ci è letteralmente esploso tra le mani. Io dissi sì alla tv e molto colleghi mi rimproverarono perché all’epoca le serie non erano considerate un prodotto importante come lo sono oggi.
Lei però tirò dritto.
Più leggevo il copione più mi appassionavo e, conoscendo il gruppo di lavoro, mi ritrovai in maniera naturale a dire di sì. Fu un successo, andavamo avanti a colpi di 9 milioni di spettatori a puntata. Poi ad un certo punto il mio personaggio, l’ispettore Paolo Libero, uscì di scena e chiesi agli sceneggiatori di farlo morire da eroe.
Il risultato?
14 milioni di spettatori, numeri da Sanremo. Fuori da Cinecittà c’era gente che faceva lo sciopero della fame per far tornare il mio personaggio nella serie, la gente al supermercato mi toccava per capire se stessi bene.
Lei ha lavorato anche con quel gigante di Mario Monicelli: come riuscì a colpirlo?
Non so se avesse visto in me un talento, di sicuro gli piaceva che fossi un ragazzo sveglio. Mario era di una intelligenza lucidissima, di quelle che ti illuminano anche solo standogli accanto. Si era molto affezionato, pretendeva che nelle pause mangiassi con lui. E fuori dal set ero tra i pochi che la moglie Chiara invitava anche a cena a casa: è stata un’esperienza umana meravigliosa stargli accanto.
Paolo Sorrentino l’ha scelta per La grande bellezza.
Altra esperienza umana fondamentale e irripetibile. Considero un privilegio essere stato nel cast di un film che ha vinto l’Oscar e soprattutto aver assorbito le sue idee, il suo stile, il suo modo di vedere il mondo. Basta un tratto, un’inquadratura per riconoscere la sua firma.
Lei sta preparando il suo terzo film da regista: cosa vorrebbe rubare a Sorrentino e altri registi – da Muccino a Luchetti – con cui ha lavorato?
La dedizione assoluta al lavoro e l’apertura mentale: di Paolo mi ha colpito moltissimo la capacità di adattarsi alle circostanze e agli attori portandoli nella direzione che vuole lui. Per il resto, punto ad avere una riconoscibilità che non tradisca la mia linea di pensiero.
Il suo primo film era incentrato sulla paternità, il secondo sulla fede. Il terzo?
Sul lavoro, che per me oggi è il tema dei temi. Il lavoro manca e quando c’è innesca una competizione estrema, esaspera un istinto di sopravvivenza quasi feroce. Voglio raccontare quel terreno di scontro. Siamo in fase di pre-produzione e sono riuscito a comporre un bellissimo cast che ancora non posso rivelare.
A proposito di competizione: da ex sportivo lo è ancora o c’ha fatto pace?
Lo sono sempre ma senza la ferocia di un tempo. Coltivo la disciplina e mi applico alla ricerca del movimento perfetto, che significa migliorare nel mio lavoro. E ho imparato ad accettare la sconfitta, soprattutto quando arriva da un rivale di livello.
C’è un sì professionale di cui si pente?
All’inizio della carriera accettai di fare una commedia realizzata da produttore all’epoca molto importante. La feci solo perché temevo che il rifiuto avrebbe avuto delle ripercussioni.
C’è un no di cui si pente?
Ho detto molti più no che sì. Forse sarei potuto diventate più noto, più ricco e lavorare ancora di più. Ma non ho mai voluto tradire me stesso e la passione per il lavoro che.
Qual è il lato trasgressivo che si cela dietro la sua faccia da “bravo ragazzo”?
(ride) Forse ci sono tanti lati trasgressivi o forse nessuno, chissà.
Cos’è che il pubblico non sa di lei?
Che ho vissuto un grande tumulto di conflitti interiori che però sono stati domati dallo sport. Il mio sovraccarico di energia, soprattutto in passato, l’ho canalizzato nello sport: questo mi ha aiutato a raggiungere una tranquillità interiore e a frenare la carica più aggressiva. Lo sport prima e la lettura poi mi hanno dato una disciplina e fatto capire la direzione che dovevo prendere.
Lei è stato spesso al centro del gossip per le sue storie d’amore. La diverte, la intriga o la irrita il gioco del pettegolezzo?
Detesto il gossip, non mi appartiene e in passato l’ho considerato persino una violenza. Capisco che sia parte del gioco e persino un attestato di curiosità ma vedere scritte fesserie sul proprio conto non è piacevole. Per questo vado di sottrazione e non parlo mai troppo di mia figlia e della mia fidanzata.
La volta in cui si è arrabbiato di più?
C’è stato un momento in cui i paparazzi non solo erano invadenti ma sembrava quasi che cercassero il conflitto. Una volta, dentro un alimentari con mia figlia Maria, mi sono ritrovato questo tizio che ci fotografava. Per un momento ho perso l’aplomb e l’ho inseguito in Piazza Ungheria, a Roma, poi sono tornato lucido e mi sono fermato. Era un periodo brutto e l’ho sofferto molto. Oggi il clima con i paparazzi è molto più disteso.
Il 17 febbraio debutterà a L’Aquila con Racconti disumani, di Franz Kafka, con la regia di Alessandro Gassmann.
È la nuova produzione del Teatro Stabile d’Abruzzo ed è una sfida per me e per lui. Questo monologo era il cavallo di battaglia di Vittorio Gassmann e Alessandro ne ha fatto la regia cercando una chiave di lettura personale. Per me è impegnativo perché sto in scena un’ora e mezza raccontando l’evoluzione di questo scimpanzé da scimmia a pseudo umano.
Quanto alla tv, le piattaforme l’hanno mai corteggiata?
Ho due progetti in ballo che riguardano le arti marziali, di cui sono grande appassionato. Vedremo come evolveranno.
Piccola curiosità: com’è stato prendere il posto di Antonio Banderas nella pubblicità della Mulino Bianco?
(ride) Molto bello e divertente. Ci sono entrato in punta di piedi. L’unica cosa che chiesi era di non avere a che fare con animali: li amo molto ma parlare con una gallina lo trovavo straniante.
Il suo grande sogno professionale?
Continuare a spaziare il più possibile con personaggi imprevedibili: mi piacciono gli antieroi, i ruoli scomodi, quelli cupi e negativi. Con gli eroi romantici ho dato, sono fuori tempo massimo per incarnarne altri.