Diritti

L’occasione di una presidente donna è sfumata. Ma magari il problema fosse solo in politica

La recente elezione del Presidente della Repubblica ha riacceso il dibattito sulla presenza femminile nella vita pubblica del nostro paese. La politica, che si riempie tanto la bocca nel parlare di diritti per le donne, si è dimostrata ancora una volta scollata dal Paese reale e incapace di trovare un accordo anche per eleggere una donna al Quirinale. Non si è stati in grado, purtroppo, di superare personalismi, giochi di potere, astiosità, contraddizioni, ipocrisie.

La prima donna votata dai grandi elettori era stata, nel 1946, Ottavia Penna di Buscemi, candidata dal movimento dell’Uomo qualunque, guidato dal commediografo Guglielmo Giannini. Politica, eletta all’Assemblea costituente con sole altre 20 colleghe, di nobili origini, fu sempre chiamata “la baronessa”. Il 28 giugno del ’46 ottenne 34 voti, ma si trattava delle elezioni del Capo provvisorio dello Stato, in cui fu eletto Enrico De Nicola. Dopo Ottavia, l’idea di votare una donna non fu più presa in considerazione da nessuno per 32 anni.

Nel 1978, Camilla Cederna, giornalista dell’Espresso, Eleonora Moro, moglie dello statista della Dc, e Ines Boffardi, partigiana democristiana, prima donna nominata sottosegretario alla Presidenza della Repubblica, sono state, invece, le prime donne ad essere votate, seppure senza esito, durante uno scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica. In quel 1978 fu eletto Sandro Pertini, che in quel momento era ancora Presidente della Camera, il quale fu addirittura costretto a “bacchettare” i colleghi che “ridevano” all’idea che una donna potesse essere eletta.

Possiamo dire, quindi, che Cederna, Moro e Boffardi, sono state pioniere involontarie in una corsa che si è svolta finora sempre tutta tra uomini, nonostante si senta ripetere da 44 anni che “il Paese ormai è maturo”. Peccato che il Parlamento non rispecchi la stessa maturità. Tante le occasioni sprecate: da Nilde Iotti che è stata presidente della Camera per tre legislature e madre costituente; a Tina Anselmi, partigiana e politica Dc, prima donna ministro della Repubblica e presidente della Commissione di Inchiesta sulla P2; a Emma Bonino, che nel 1999 era stata protagonista di una campagna di opinione ‘Emma for president’, che aveva raccolto molti consensi nei sondaggi ma che non si concretizzò in un consenso in Parlamento; ad Anna Finocchiaro, politica del Partito democratico e magistrata.

Solo per citarne alcune, perché l’elenco è più lungo e ricco di figure competenti e valide.

Il problema, tuttavia, non riguarda soltanto la politica, ma ogni campo della nostra società, in particolare, le posizioni di vertice. Ne sono sempre più consapevole da quando, dal 2018, ho potuto mettere “le mani in pasta”, dopo la mia elezione a deputata della Repubblica. Io credo che la questione sia anche e soprattutto di natura culturale e porta con sé la necessità di valorizzare il genere femminile in tutti i settori, dalla politica alla Pubblica amministrazione, alle Aziende, al contesto familiare. Ciò vale soprattutto per i ruoli apicali che, ancora oggi, registrano più presenza femminile ma non ancora quella auspicata dalle politiche europee.

Secondo il Gender Diversity Index 2021 (GDI), che ha condotto uno studio sulla rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e nei vertici aziendali delle più grandi realtà europee, le donne continuano a sbattere contro il famoso “soffitto di cristallo”. In una scala che va da zero a 1, in cui quest’ultimo rappresenta il traguardo del 50% di donne nelle posizioni di vertice, siamo ancora a 0,59. Un miglioramento dallo 0,53 dell’edizione del 2019, ma di questo passo l’obiettivo del 40% di donne nei consigli di amministrazione entro il 2025 non sarà raggiunto. Lo studio, che si è concentrato su 668 società quotate di 19 Paesi, ha verificato che l’anno passato solo il 35% dei membri dei Consigli di Amministrazione erano donne, un aumento di un solo punto percentuale rispetto all’anno precedente. Se si guarda il livello più alto delle aziende, l’assenza delle donne è ancora maggiore, con gli uomini che occupano l’81% delle posizioni. E su 668 aziende analizzate, solo il 7% (ovvero 50) è guidata da un amministratore delegato donna, un miglioramento insignificante rispetto alle 42 donne del 2020.

Nel nostro Paese i dati statistici ci dicono che se la situazione è migliorata nelle aziende private, per le Società quotate grazie alla Legge Golfo-Mosca del 2011, nella Pubblica Amministrazione e in magistratura i ruoli direttivi sono, in gran parte, ancora affidati agli uomini. Basta dare un’occhiata ai numeri per rendersi conto che si deve fare ancora molto di più: la Magistratura, ad esempio, ha un organico a forte componente femminile, eppure tra i 37 membri del Csm si contano soltanto 7 donne. La situazione non cambia nelle Università: su 84 atenei, ci sono 79 rettori uomini e soltanto 5 donne. Sempre in ambito universitario, tra i 57.000 docenti è presente il 39% di donne ma, se si rileva la percentuale tra i professori ordinari, il numero scende al 25%. Nel Servizio Sanitario Nazionale si registra una bassa percentuale di donne primario (17%), mentre a livello manageriale, direttori di Asl e aziende ospedaliere, per esempio, le dirigenti donne sono solo il 24%.

A partire dal 2000 sono entrate molte donne nelle Forze armate e nelle Forze dell’ordine; sono, infatti, in attività numerosi Prefetti (40) e Questori (39) donna, ma non risulta esserci un solo generale nelle quattro Armi e le quattro generalesse dei Carabinieri provengono dal Corpo forestale e dalla Polizia di Stato.

Ancora più interessante: quando per il posto di vertice viene utilizzata la metodologia dell’elezione diretta (bottom-up), come accade per l’ordine delle professioni sanitarie, la parità è sostanziale. Come prevedibile, la presenza femminile crolla invece quando la designazione o la nomina scende “dall’alto”, quindi da parte di autorità sovraordinate (top-down). Cosa significa? Significa che gli uomini designano e nominano altri uomini, dando vita a una dinamica consolidata che tiene volontariamente le donne lontane dai posti di vertice che meriterebbero.

Un’altra insidia, mascherata da buone intenzioni, si chiama Pink Washing ed è purtroppo molto diffusa, stando ai dati appena citati. Il Pink Washing viene praticato da Istituzioni e imprese per “apparire” corretti nelle politiche di genere. “Apparire” però non significa “essere”. Le posizioni destinate alle donne sono infatti quasi sempre ininfluenti per le decisioni. Nelle aziende molto spesso la presidenza dei Consigli di Amministrazione viene affidata alle donne e quella di amministratore delegato agli uomini. Cosa comporta questo? Che la rappresentanza è “salva” ma le decisioni e il budget restano saldamente in mani maschili.

Così nella politica, dove alle donne vengono spesso affidati Ministeri senza portafoglio. Nel tempo sono state approvate decine di leggi per la parità uomo/donna e per la promozione delle cosiddette quote rosa ma lo stato generale del nostro Paese sul tema non è all’avanguardia in Europa tanto che nella classifica dell’apposito Indice elaborato dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) attualmente l’Italia è al 14° posto nella classifica dei Paesi UE-27; infatti, in questo indice calcolato nel 2020 l’Italia ha ottenuto un punteggio di 63,5 su 100 e tale risultato è inferiore alla media dell’Ue di 4,4 punti.
Questi dati devono fare riflettere, in quanto le leggi ci sono, ma quello che deve cambiare è la mentalità del Paese in tutti i suoi settori, dando vita a una profonda rivoluzione culturale che metta al centro le donne.

Dobbiamo ricordare che siamo nel pieno di una svolta epocale che il Covid ha accelerato, dove le donne sono protagoniste di questo cambiamento e dove ci sono tanti esempi positivi cui possiamo ispirarci. Le donne sono state ancora di più fondamentali durante la pandemia: abbiamo fronteggiato l’emergenza grazie alle donne che hanno gestito i malati negli ospedali e le famiglie nelle proprie case. Donne protagoniste ovunque, hanno acquisito una maggiore consapevolezza dell’importanza della parità e dell’equità nella società.

Secondo i dati Istat, le donne si laureano più degli uomini, sono più colte, stanno crescendo nei settori scientifici grazie alle tecnologie abilitanti, ed il Paese intero deve essere pronto ad abbracciare e metabolizzare questo cambiamento. Occorre l’impegno, in tal senso di tutti, cittadini e politica, per superare pregiudizi e caste, consentendo così a chi è meritevole di ricoprire ruoli idonei, indipendentemente dal genere.

È arrivato il momento di dare uno spazio sul serio, non solo a parole. Qualcosa piano piano sta cambiando ma che fatica!